Cass. sent. n. 13681/2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FOGLIA Raffaele - Presidente
Dott. ZAPPIA Pietro - rel. Consigliere
Dott. CURZIO Pietro - Consigliere
Dott. MELIADò Giuseppe - Consigliere
Dott. TRICOMI Irene - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FOGLIA Raffaele - Presidente
Dott. ZAPPIA Pietro - rel. Consigliere
Dott. CURZIO Pietro - Consigliere
Dott. MELIADò Giuseppe - Consigliere
Dott. TRICOMI Irene - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BP. AS. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALESSANDRIA 2 08, presso lo studio dell'avvocato CARDARELLI ITALO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato STRINGHINI SERGIO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
Caio, I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER LE ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, Tizio , nella sua qualità di titolare d'impresa individuale " RI. PI. GA. ";
- intimati -
avverso la sentenza n. 403/2006 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 29/12/2006 R.G.N. 606/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/04/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;
udito l'Avvocato IDA CARDARELLI per delega ITALO CARDARELLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAETA Pietro, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
FATTO
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Bergamo, depositato in data 20.12.2001, Caio, premesso di aver svolto attività lavorativa alle dipendenze di Tizio, titolare della ditta individuale " Ri. Pi. Ga. di. Tizio ", esponeva di aver subito in data (Omissis) un grave infortunio sul lavoro mentre era intento a pulire la macchina affettatrice, a seguito del quale aveva riportato l'amputazione delle falangi distali del 2 e 3 dito nonchè l'asportazione traumatica del letto ungueale del 4 dito della mano destra, e di essere stato successivamente licenziato per superamento del periodo di comporto.
Chiedeva la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico e morale conseguente all'infortunio occorsogli e la declaratoria della illegittimità de licenziamento con condanna della convenuta alla riassunzione o al risarcimento del danno.
Istauratosi il contraddittorio la Fr. contestava quanto dedotto dal ricorrente e chiedeva comunque la chiamata in causa dell'Inail e della Compagnia di assicurazioni BP. As. s.p.a. dalla quale intendeva essere manlevata nell'ipotesi di condanna per l'infortunio suddetto.
Autorizzata la chiamata in giudizio si costituiva l'Inail resistendo alla domanda ed esercitando al contempo azione di regresso nei confronti della Fr. .
E si costituiva altresì la BP. As. s.p.a. opponendosi alla domanda di manleva sul rilievo della inoperatività della copertura assicurativa, espressamente limitata ai danni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 10 e 11 e non comprendente il danno biologico e morale.
Con sentenza n. 217/05 del 23.3.2005 il Tribunale adito accertava la responsabilità esclusiva della datrice di lavoro nella causazione del sinistro, condannando la stessa al risarcimento del danno; dichiarava la illegittimità del disposto licenziamento con condanna della Fr. al risarcimento del danno nella misura di 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto; accoglieva la domanda di rivalsa proposta dall'Inail; assolveva la Compagnia di assicurazioni dalla domanda di manleva in relazione a quanto dovuto dalla datrice di lavoro al dipendente per danno morale e biologico.
Avverso tale sentenza proponeva appello la Fr. lamentandone la erroneità in relazione alla affermazione di responsabilità della stessa nella causazione dell'infortunio, all'ammontare del risarcimento concesso, alla statuizione relativa alla rivalsa dell'Inail, alla mancata condanna della Compagnia di assicurazione alla manleva nonchè alla illegittimità del licenziamento; e proponeva altresì appello incidentale il lavoratore lamentando l'erroneità dell'impugnata sentenza sotto altri profili.
La Corte di Appello di Brescia, con sentenza in data 28.9 - 29.12.2006, in parziale accoglimento dell'appello proposto dalla Fr., condannava la Compagnia di assicurazione a tenere indenne la predetta appellante da quanto dovuto al lavoratore in conseguenza dell'infortunio dallo stesso subito; confermava nel resto l'impugnata sentenza.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la BP. As. s.p.a. (già BP. As. s.p.a.) con un motivo di impugnazione.
Gli intimati non hanno svolto alcuna attività difensiva. La ricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..
DIRITTO
Col proposto ricorso la società assicuratrice lamenta violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 10 e 11 anche in relazione all'articolo 1362 c.c.
In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale, nell'interpretare la clausola di cui all'articolo 90/b delle condizioni generali della polizza di assicurazione, intervenuta tra la BP. As. s.p.a. (ora BP. As. s.p.a.) ed il ristorante Pi. Ga. di. Tizio , secondo cui "la Compagnia si obbliga a tenere indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale, interessi e spese) quale civilmente responsabile ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, articoli 10 e 11 per gli infortuni (escluse le malattie professionali) sofferti dai prestatori di lavoro da lui dipendenti", aveva ritenuto che la comune volontà delle parti, in presenza di un quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile del datore di lavoro per danno biologico e danno morale in forte evoluzione, fosse nel senso di coprire, con la polizza assicurativa stipulata, anche la responsabilità civile del datore di lavoro per tali ipotesi di danno.
E pertanto la motivazione della Corte territoriale si appalesava censurabile laddove pretendeva di individuare il contenuto della volontà delle parti non secondo una valutazione oggettiva dei dati del contratto, ma secondo una interpretazione della clausola che andava oltre la comune volontà delle parti, e che attribuiva esclusivo rilievo all'evoluzione giurisprudenziale delle norme di legge cui il contratto stesso rinviava.
Il ricorso è fondato.
Osserva innanzi tutto il Collegio che la ricorrente ha ottemperato al disposto dell'articolo 366 bis c.p.c., applicabile nella fattispecie ratione temporis, avendo, sia pure sotto forma interrogativa, esposto il quesito di diritto posto all'attenzione di questa Corte.
Orbene, il motivo proposto si fonda, essenzialmente, sulla interpretazione dell'articolo 90/b del contratto in parola.
Posto ciò, è necessario innanzi tutto ricordare che, secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte (v., fra le molte pronunce, Cass. sez. 1, 24.6.2008 n. 17088; Cass. sez. lav. 13.6.2008 n. 16036; Cass. sez. lav. 12.6.2008 n 15795; Cass. sez. 1, 22.2.2007, n. 4178), l'interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, qualora quella adottata sia contraria a logica e incongrua, tale, cioè, da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Il sindacato di questa Corte non può, dunque, investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito.
Argomentando da questi rilievi la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi, in sede di legittimità, del fatto che sia stata privilegiata l'altra.
Specularmente, per come parimenti rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte, il vizio di motivazione, in punto di interpretazione del contratto, deve emergere dall'esame del ragionamento e degli argomenti svolti dal giudice del merito, e non dalla possibilità di un diverso significato attribuibile al negozio, nè deve riguardare l'apprezzamento del significato delle clausole del contratto, ma solo la coerenza formale, ossia l'equilibrio dei vari elementi che costituiscono la struttura argomentativa (cfr., ex plurimis, Cass. sez. 1, 2.5.2006 n. n. 10131; Cass. sez. 3, 21.4.2005 n. 8360; Cass. sez. 3, 25.2.2005 n. 4063; Cass. sez. 3, 6.8.2004 n. 15197; Cass. sez. 3, 19.7.2004 n. 13344; Cass. sez. 3, 17.7.2003 n. 11193).
Alla luce di tali principi il motivo all'esame si appalesa fondato, ove si osservi che la regola che riserva al giudice di merito l'interpretazione dell'accordo trova il limite della coerenza logica del ragionamento e degli argomenti svolti dal decidente, coerenza che si sostanzia nel rispetto dei canoni di ermeneutica contrattuale.
Rileva invero il Collegio che, in tema d'interpretazione del contratto, la volontà delle parti - da intendersi quale volontà esteriormente riconoscibile - dev'essere desunta dal senso letterale delle parole utilizzate e dalla loro comune intenzione (articolo 1362 c.c., comma 1), quale emerge dal comportamento anche successivo alla conclusione del contratto (comma 2) e dalla lettura complessiva del contratto le cui "clausole si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto" (articolo 1363 c.c.).
Con la ulteriore precisazione che, se pur è vero che a norma dell'articolo 1362 c.c. l'interpretazione della norma contrattuale richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, come trasfusa nel contratto stesso e quale risulta da loro comportamento complessivo, l'elemento basilare per l'accertamento di tale comune intenzione è fornito da senso letterale delle parole usate; e pertanto, in presenza di dichiarazione bilaterale o plurilaterale, siffatta comune intenzione delle parti non può prescindere dalla formulazione letterale della dichiarazione medesima, e quindi dal senso letterale delle parole che tale dichiarazione compongono.
Tutte le altre norme di ermeneutica contrattuale sono applicabili solo se si determinano situazioni peculiari (ad esempio laddove vengano usate espressioni generali o indicazioni esemplificative) o quando, applicati i criteri dettati dagli articoli precedenti, le previsioni contrattuali conservano ambiguità non risolte (per espressa previsione degli articoli 1367 - 1370, le regole contenute in tali norme operano solo se, applicati i criteri degli articoli 1362 - 1366, le clausole rimangono ambigue, dubbiose, oscure). In via ulteriormente sussidiaria e del tutto residuale si può ricorrere alle regole finali fissate dall'articolo 1371.
Orbene, nel caso in esame la Corte territoriale ha ritenuto che la formulazione della clausola di cui all'articolo 90/b delle condizioni generali della polizza di assicurazione, secondo cui "la Compagnia si obbliga a tenere indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale, interessi e spese) quale civilmente responsabile ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 10 e 11 per gli infortuni (escluse le malattie professionali) sofferti dai prestatori di lavoro da lui dipendenti, non potesse prescindere dalla valutazione dei contenuti nuovi di cui andava arricchendosi la valutazione del danno alla persona, con la inclusione nella responsabilità civile del datore di lavoro anche del danno morale e del danno biologico. Ed ha ritenuto di conseguenza che la portata normativa di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 10 e 11 si era ampliata fino a comprendere, alla stregua della evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno morale e del danno biologico, tale ipotesi di danno; ed invero, "facendo applicazione di tali principi nella fattispecie e tenendo presente che la polizza assicurativa è stata stipulatasi quando la problematica della risarcibilità o meno del danno biologico era già da tempo sul tappeto ed era stata già chiarita dalla Corte Costituzionale (sent. N. 485/91), se ne può fondatamente ricavare che le parti, nel richiamare, all'articolo 90 della polizza, la disciplina dell'articolo 10 anzidetto, senza limitazione alcuna, abbiano inteso riferirsi anche alla responsabilità del datore di lavoro per il danno biologico sofferto dai dipendenti, come, del resto, è confermato più oltre, ove, nell'indicare espressamente i danni non compresi nella garanzia assicurativa, nulla si dice in ordine al danno biologico ed al danno morale".
Rileva il Collegio che l'iter argomentativo della Corte territoriale non appare coerente alle regole codicistiche sopra indicate, previste in tema di ermeneutica contrattuale.
Non si vede invero, come a fronte della assolutamente chiara previsione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 10 e 11 richiamati nel contratto in questione, la garanzia assicurativa prevista da tali norme potrebbe operare non già all'interno del sistema dei due articoli ora citati, bensì - in definitiva - nell'ambito più ampio della responsabilità civile per fatto colposo, ai sensi dell'articolo 2043 (e quindi dell'articolo 2059) cod. civ.
Ed invero la Corte territoriale non indica significativi dati extratestuali utili per la individuazione, nel contratto in questione, della comune volontà delle parti, essendosi limitata ad evidenziare elementi di significato neutro rispetto a tale finalità, quale il fatto che all'epoca del contratto di assicurazione fosse già da tempo sul tappeto la problematica della risarcibilità o meno del danno biologico e fosse stata tale problematica già affrontata e chiarita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 485/91, pervenendo ad una lettura della clausola in questione ritenuta da questa Corte, in fattispecie analoghe, non coerente con il tenore letterale della normativa di cui al decreto presidenziale predetto, che - per come detto - costituisce il primo e fondamentale dato significativo della comune volontà delle parti (Cass. sez. lav., 2.7.2010 n. 15793).
Nè può omettersi di rilevare che parimenti non condivisibile si appalesa l'assunto della Corte di merito circa l'insussistenza dell'aggravamento del rischio, ove si osservi che la necessaria correlazione del premio con il rischio non può tollerare un'alea ulteriore, rappresentata dalla evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria che in qualche modo possa incidere sulla natura e sull'entità dell'oggetto dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e, di riflesso, sul contenuto della garanzia pattuita a carico della società che ha stipulato la polizza (Cass. sez. lav., 10.3.2004 n. 4920).
E che l'impugnata sentenza si presti alle censure contenute nel proposto ricorso, proprio sul piano nel quale è consentito il vaglio di legittimità da parte della Corte di Cassazione, emerge altresì dal rilievo, più volte evidenziato da questa Corte (Cass. sez. lav., 21.12.2010 n. 25860; Cass. sez. lav., 2.7.2010 n. 15793; Cass. sez. lav., 5.5.2010 n. 10834; Cass. sez. lav., 18.3.2004 n. 5507; Cass. sez. lav., 10.3.2004 n. 4920; Cass. sez. lav., 29.7.2003 n. 11679; Cass. sez. lav., 29.9.1998 n. 9730), che le indennità previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 sono esclusivamente connesse e commisurate alle conseguenze infortunistiche sull'attitudine al lavoro dell'assicurato, mentre nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione psico - fisica altrimenti comporta per il soggetto, sicchè il danno biologico, in sè considerato, resta completamente fuori dal sistema risarcitorio previsto dagli articoli 10 ed 11 citati; e la fondatezza delle censure svolte avverso l'impugnata sentenza emerge ulteriormente dal rilievo che, in difetto di una espressa manifestazione di volontà delle parti, intesa ad estendere il rischio coperto dalla polizza anche al danno biologico, i richiamo esplicito al Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 10 e 11 comporta la necessità per l'interprete di limitare il rischio assicurato esclusivamente alle prestazioni rientranti nell'ambito di operatività di detta norma (in tal modo dettando il principio inverso a quello ritenuto alla Corte di merito nell'impugnata sentenza, laddove veniva ravvisata l'esistenza di una conferma della estensione della polizza anche alla responsabilità del datore di lavoro per il danno biologico nella mancata esplicita esclusione, pur a fronte del richiamo alla disciplina del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10 di tale ipotesi di responsabilità dalla garanzia assicurativa).
Parimenti non può omettersi di evidenziare che questa Corte ha, a più riprese, rilevato che il richiamo, nella clausola contrattuale, degli articoli 10 ed 11 citati, non può essere considerato alla stregua di un "rinvio formale", che tenga conto delle diverse interpretazioni di tali norme succedutesi nel tempo, atteso che nel caso di polizza assicurativa, la copertura garantita non può essere variata nel corso del rapporto, a seconda delle mutevoli interpretazioni giurisprudenziali o dottrinali (Cass. sez. lav, 5.10.2007 n. 20890; Cass. sez. lav., 10.3.2004 n. 4920; Cass. sez. lav., 29.9.1998 n. 9730).
Ritiene pertanto il Collegio, alla stregua delle considerazioni svolte, che il percorso motivazionale adottato dalla Corte territoriale relativo alla interpretazione della polizza assicurativa in questione si appalesa non conforme alle regole di ermeneutica contrattuale sopra indicate; e si appalesa altresì non conforme al costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, in base alla disciplina dettata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, per il periodo sottratto, ratione temporis, al disposto del Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, articolo 13 (che ha ricondotto il danno biologico nella copertura assicurativa obbligatoria), l'ambito della copertura assicurativa in caso di infortunio sul lavoro riguarda unicamente il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa, e non anche il danno alla salute o biologico ed il danno morale, entrambi di natura non patrimoniale: sicchè il danno biologico ed il danno morale, in sè considerati, restano completamente fuori dal sistema risarcitorio previsto dalle disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 precedentemente citate, salva diversa espressa manifestazione di volontà delle parti intesa ad estendere il rischio coperto dalla polizza anche ai danni testè detti (Cass. sez. lav., 21.12.2010 n. 25860).
Conclusivamente il ricorso deve essere accolto.
Si impone di conseguenza la cassazione dell'impugnata sentenza con rinvio della causa per un nuovo esame, alla stregua delle osservazioni in precedenza svolte, ad altro giudice di appello, designato nella Corte d'Appello di Milano, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell'articolo 385 c.p.c., comma 3.
P.Q.M.
LA CORTE
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano.