Con sentenza dell'1 febbraio 1999 il Pretore di Milano rigettava la domanda proposta da Serafino Angelo T. - dipendente della S.p.A. M.M.quale disegnatore meccanico di V livello presso lo stabilimento di Corbetta (Milano) - con la quale veniva impugnato il proprio trasferimento a San Salvo (Chieti), comunicatogli in data 5 settembre 1996.
Deduceva il T. che la sua presenza in Corbetta era necessaria per assistere ai genitori anziani e bisognosi di tale assistenza, lamentando che la società datrice di lavoro non aveva tenuto conto che egli non aveva rifiutato il proprio inserimento nel "reparto corse" ancora esistente in Corbetta né lo svolgimento di mansioni operaie.
Chiedeva, pertanto, l'annullamento del trasferimento, anche per violazione dell'art. 16 del C.C.N.L. Metalmeccanici.
Si costituiva la società M.M., osservando che tutta la Divisione Macchine Rotanti, cui era addetto il ricorrente, era stata trasferita a San Salvo, come da accordi sindacali. Deduceva, inoltre, che nella fase iniziale di tale operazione di ristrutturazione era stata anche chiesta ed ottenuta la C.I.G.S. della quale il ricorrente aveva goduto, e che quest'ultimo aveva rifiutato l'inserimento, quale operaio, nel "settore corse", settore di grande specializzazione, al quale erano addetti solo otto dipendenti di elevata professionalità, per cui, dopo un periodo di comando presso Arexons il suo trasferimento era divenuto inevitabile.
Avverso la sentenza di rigetto della domanda di annullamento del trasferimento emessa dal Pretore, il T. proponeva appello, insistendo nelle proprie pretese ed affermando che egli era sempre stato inserito nella "squadra corse", che continuava ad esistere e che non aveva affatto rifiutato le mansioni operaie; soggiungeva, inoltre, che non era dimostrata la sua utilità nella nuova sede di San Salvo.
La S.p.A. M.M.si costituiva, resistendo al gravame.
Con sentenza del 4-15 aprile 2000, l'adito Tribunale di Milano, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava illegittimo ed inefficace il trasferimento, annullandolo; ordinava pertanto all'appellata di riammettere in servizio il T. nel posto di lavoro in Corbetta, condannandola al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
In particolare, il Tribunale, limitata la propria decisione alla "invocabilità, da parte del T., dell'art. 33, comma quinto, della legge n. 104 del 1992", respingeva le argomentazioni dell'azienda in ordine alla inidoneità della documentazione medica prodotta, sostenendo che l'accertamento di cui all'art. 4 legge citata, non poteva essere invocato, in quanto la domanda era stata azionata dal figlio e non dai genitori portatori di handicap.
In secondo luogo, il Tribunale desumeva dai risultati della disposta consulenza tecnica che il padre del ricorrente era certamente bisognoso di assistenza, che la madre non era in grado di fornirgliela e che pertanto il lavoratore doveva necessariamente accudire i genitori.
Infine, osservava che la locuzione "ove possibile", contenuta nell'art. 33, comma quinto, della legge citata, segnando il limite del divieto di trasferimento, doveva essere interpretata in senso estremamente rigoroso, con ciò concludendo, sulla base delle dichiarazioni dello stesso T., che questi avrebbe potuto essere adibito a mansioni operaie, con qualche sacrificio per l'azienda, non essendovi stata una modifica del tutto innovativa della struttura aziendale.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la D.M.I. S.p.A., già M.M.M. S.p.A., con quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Resiste il T. con controricorso.
Con il primo motivo la ricorrente società, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 3 e 4 della legge n. 104 del 1992 con specifico riferimento all'art. 33, comma quinto, della legge citata, sostiene che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che l'accertamento delle condizioni dei genitori del T. non dovesse essere compiuto attraverso i meccanismi di cui all'art. 4 della richiamata legge.
In particolare, la società censura l'assunto del Tribunale secondo cui l'art. 3 citato limiterebbe ai soli portatori di handicap - in quanto interessati ad ottenere diretti benefici di cui al medesimo articolo - gli accertamenti previsti dal successivo art. 4. Conseguentemente, poiché nel caso di specie sarebbe il figlio degli invalidi a chiedere l'accertamento di una situazione al fine di godere dei benefici indicati nell'art. 33, egli sfuggirebbe alla normativa di cui al citato art. 4.
Con il secondo motivo, denunciando sempre la violazione dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, la ricorrente sostiene che il diritto di non essere trasferito, di cui alla richiamata disposizione, sussisterebbe solo per chi assiste un parente portatore di handicap grave, con la conseguenza che, ove tale condizione non sussista, nessun diritto può essere riconosciuto ai soggetti di cui al citato articolo.
Il Tribunale di Milano avrebbe, perciò, errato nell'applicare nel caso di specie una interpretazione estensiva della norma, sino a comprendervi anche casi di portatori di handicap privi del requisito della gravità, così come risultante dalla norma di legge.
Con il terzo motivo viene denunciato vizio di motivazione in ordine all'applicazione dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, con riferimento ad un punto essenziale della controversia risultante dalla consulenza tecnica d'ufficio, osservandosi come, prescindendo dal problema della gravità dell'handicap, il Tribunale avrebbe totalmente omesso di prendere in considerazione le risultanze peritali dalle quali emergeva la inesistenza della necessità continuativa di assistenza all'epoca in cui fu disposto il trasferimento.
Con l'ultimo motivo di ricorso, la società denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all'applicazione dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, con riferimento ai risultati istruttori, dolendosi che il Giudice d'appello abbia rigettato le proprie contestazioni in merito alla portata interpretativa dell'inciso "ove possibile", riportato nella richiamata disposizione, sul rilievo che, dovendosi tale locuzione interpretarsi in modo rigoroso, non sarebbe invocabile l'inapplicabilità della stessa, laddove risultasse, seppur con qualche sacrificio, utilizzabile la prestazione del lavoratore.
Si duole altresì che il Tribunale abbia ritenuto provata la disponibilità del T. a svolgere mansioni operaie e la possibilità di assegnazione a tali mansioni in violazione del divieto di cui all'art. 2113 c.c.
Il ricorso, i cui motivi sono stati così sinteticamente esposti, merita accoglimento nei termini che seguono.
La legge 5 febbraio 1992 n. 104 ("Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate"), dopo avere proclamato solennemente e sotto un profilo generale che la Repubblica garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società (art. 1, lett. a), con un'enunciazione - ad introduzione dell'intero testo normativo - nella quale trovano sede i diritti inviolabili del singolo, considerato come individuo ed inserito nelle formazioni sociali che valgono a sviluppare la persona, anche se portatrice di handicap (art. 1, lett. b, c, d), dispone, all'art. 4, che "gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua, di cui all'art. 3, sono effettuati dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1 della legge 15 ottobre 1990 n. 295, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le unità sanitarie locali". A sua volta, l'art. 3, richiamato dall'art. 4, indica nella persona handicappata il soggetto avente diritto alle prestazioni, previste dalla legge n. 104 del 1992, identificandolo in colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione (comma 1). Il comma 2 dello stesso art. 3 specifica che la persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative. Il successivo comma 3 specifica ulteriormente che "qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione la situazione assume connotazione di gravità".
Nell'ambito degli scopi prefissati dalla legge n. 104 del 1992, sono previste - per quel che qui interessa - particolari agevolazioni, individuate dall'art. 33, oltre che in favore della lavoratrice madre o, in alternativa, del lavoratore padre (anche adottivi), anche - ed è l'ipotesi in cui va inquadrato il caso in oggetto - in favore del "genitore o del familiare".
In particolare il comma 5, di detto articolo detta testualmente: "il genitore o familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede".
Tale diritto che trova la sua "ratio" nell'esigenza di evitare l'interruzione dell'effettiva ed attuale convivenza, che potrebbe avere negative ricadute sullo stato fisico e psichico dell'handicappato, non risulta però illimitato. Ed invero, come è dimostrato dall'inciso "ove possibile", di cui al citato quinto comma dell'art. 33, il diritto alla effettiva tutela dell'handicappato, al cui perseguimento devono partecipare anche lo Stato, gli enti locali e le Regioni, nel quadro dei principi posti dalla legge - e secondo le modalità ed i limiti necessari ad assicurare l'effettiva soddisfazione dell'interesse comune - non può essere fatto valere, alla stregua del generale principio del bilanciamento degli interessi, allorquando l'esercizio del diritto stesso venga a ledere in misura consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro.
Sotto altro versante la chiara lettera del comma quinto dell'articolo 33 - messo anche in relazione con i restanti commi dello stesso articolo e con il successivo articolo 34 - dimostra che il diritto del genitore e del familiare lavoratore dell'handicappato non può farsi valere che nei casi in cui l'handicap sia grave, o, comunque, richieda assistenza continuativa.
A tale riguardo va in primo luogo evidenziato che la richiamata disposizione, comprendendo nel proprio ambito soltanto soggetti (genitori o familiari lavoratori) che assistono "con continuità" persona portatrici di handicap, indica in maniera implicita, ma non per questo poco chiara, che lo stato di handicap deve avere una consistenza e cioè una gravità tale da richiedere una forma di assistenza con siffatta modalità. E' evidente, infatti, che non è il fatto dell'assistenza continuativa in sé che giustifica il beneficio, bensì la circostanza che tale assistenza si renda necessaria in ragione dello stato di handicap.
Ma il beneficio - come chiarito da questa Corte in analoga fattispecie (cfr. Cass. 26 gennaio 1998 n. 8068) - è sottoposto all'indefettibile condizione che l'accertamento della entità dell'handicap venga effettuato dalle commissioni indicate nell'art. 4 della legge n. 104 del 1992, nella specie carente, come emerge dalla stessa impugnata decisione, ove si è ritenuto di ricorrere alla nomina di un consulente di ufficio.
Giova in proposito rimarcare che la disposizione in oggetto, proprio perché fa parte di una normativa, il cui complessivo disegno è fondato sull'esigenza di perseguire un evidente interesse nazionale, stringente ed infrazionabile, quale è quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionalmente fondamentali dei soggetti portatori di handicaps (cfr. in tali sensi Corte Cost. 29 ottobre 1992 n. 406), va interpretata nel senso che il beneficio da essa previsto rientra tra quelli concessi alla persona handicappata, sia pure in via indiretta, in quanto rivolto al riconoscimento di agevolazioni a persone che debbono accudire il soggetto menomato.
In tale quadro, non sono previsti né vi sono privilegi per i parenti del portatore di handicap in quanto tali, ma solo delle agevolazioni, ove siano necessarie e funzionali all'assistenza dell'individuo affetto dalla menomazione.
Il portatore di handicap acquista quindi nel quadro legislativo una sorta di "status", fonte di benefici diretti o indiretti.
Ciò spiega, per un verso, la ragione per cui il legislatore ha provveduto, in primo luogo, con il richiamato art. 3, a fornire la nozione di "persona handicappata" (comma 1), attribuendole diritti in relazione alla consistenza della minorazione (commi 2 e 3); e, per altro verso, ad indicare lo strumento atto a determinare sia lo "status" di handicappato sia la tipologia di handicap, individuato nell'accertamento descritto dal successivo art. 4.
Ritiene il Collegio, che proprio perché le agevolazioni indicate nell'art. 33 della legge n. 104 del 1992 costituiscono forme di intervento assistenziale riconosciute agli handicappati "sub specie" di agevolazioni concesse a persone che di tali individui si occupano, non sembra da condividersi la tesi del Giudice di appello, secondo cui tali agevolazioni riguarderebbero soggetti distinti dai portatori di handicap, cioè persone che, in quanto distinte dagli handicappati, sfuggirebbero all'applicazione dell'art. 4 della legge n. 104 del 1992. Opinare diversamente comporterebbe, peraltro, che, in situazioni come quelle in esame, dipendenti del medesimo datore di lavoro si vedano pregiudicati dalla posizione prioritaria del parente dell'handicappato, in forza di un giudizio, al quale non hanno partecipato, e che prescinda dall'avvenuto espletamento della procedura accertativa e, al contempo, garantistica, di cui all'art. 4.
In conclusione, deve affermarsi il principio che, allorché presupposto per la concessione di una agevolazione diretta o indiretta in favore dell'handicappato, è la sussistenza o meno di una situazione di handicap (nella specie, comportante "assistenza continua"), tale situazione deve essere accertata con lo strumento specifico indicato dalla legge, cioè l'accertamento effettuato dalle Commissioni Mediche di cui al cit. art. 4, ferma restando la possibilità di contestare nelle sedi competenti la loro determinazione.
Nel caso in esame - come si è osservato -, il Tribunale di Milano, sull'evidente presupposto dell'assenza di accertamenti effettuati ex art. 4, in relazione all'epoca del disposto trasferimento del T., attestanti la necessità di assistenza continua, da parte dello stesso, ai propri genitori, ha proceduto alla nomina di un C.T.U., per acclarare le condizioni fisiopsichiche dei genitori del T., violando così il disposto di cui al medesimo articolo.
L'esaminato mezzo di impugnazione deve, pertanto, essere accolto, rimanendo assorbiti gli altri, con conseguente cassazione della impugnata decisione. Ai sensi dell'art. 384 c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidendosi nel merito, la domanda proposta da Serafino Angelo T. va rigettata, con compensazione delle spese dell'intero processo, ricorrendo giusti motivi.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da Serafino Angelo T. e compensa tra le parti le spese dell'intero processo.
Roma, 29 gennaio 2003.