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mercoledì 15 febbraio 2012

CASS., SEZ. LAV., SENT. N. 19306 DEL 25.09.2004 - OMESSA PUBBLICITA' DEL CODICE DIISCIPLINARE

Svolgimento del processo

Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'appello di Napoli confermava, sia pure con motivazione diversa, la sentenza del Tribunale della stessa sede in data 20 aprile 2000 - che aveva accolto la domanda proposta da L. M. C. contro la F. D. S.p.a., della quale era stato dipendente con mansioni di informatore scientifico, per ottenere declaratoria di illegittimità (con ogni conseguenza) delle sanzioni disciplinari conservative e del licenziamento, che erano stati irrogati per non avere inviato con tempestività relazioni informative in ordine al lavoro svolto ed alle visite effettuate - essenzialmente in base al rilievo che l'affissione del cosiddetto codice disciplinare risultava avvenuta solo dopo l'irrogazione delle sanzioni conservative e del licenziamento, mentre non rileva nè la circostanza che l'obbligo, nella specie violato, risultava dalla lettera di assunzione, nonchè dalle contestazioni degli addebiti, nè la eventuale consegna al lavoratore - peraltro non provata - di copia dello stesso codice disciplinare e, comunque, risultava violato il termine M. (di dieci giorni dalla contestazione), previsto dalla disciplina collettiva, almeno con riferimento a due sanzioni conservative, mentre "non potrebbe sostenersi la proporzionalità del provvedimento risolutivo, fondato sulla reiterazione e progressività di tutti i precedenti disciplinari oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro: tali precedenti sarebbero infatti, comunque, di numero ed entità ben inferiori di quelli oggetto della originaria contestazione finale".

Avverso la sentenza d'appello, la F. D. S.p.a. propone ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi ed illustrato da memoria.

L'intimato M. C. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso - denunciando "travisamento ed illogica interpretazione dei fatti concernenti la prova dell'avvenuta affissione del codice disciplinare" (art. 360, n. 5, c.p.c.) - la F. D. S.p.a. censura la sentenza impugnata per avere ritenuto non provata l'affissione del codice disciplinare ~ alle date dei fatti addebitati a controparte - sebbene il rappresentante della società avesse riferito che il codice era affisso "da parecchi mesi", cioè - secondo il significato della parola "parecchio" (risultante dal vocabolario Zingarelli della lingua italiana) - "in quantità, misura o numero più che sufficiente" e, peraltro, lo stesso lavoratore avesse ammesso di "non essere certo del fatto che il codice disciplinare non fosse affisso".

Con il secondo motivo - denunciando vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) - la società ricorrente censura la sentenza impugnata per avere omesso di considerare che - consistendo gli addebiti in inadempimenti di un obbligo (concernente la trasmissione di relazioni sulle visite ai medici), espressamente qualificato "condizione indispensabile per lo svolgimento del presente rapporto" (nella lettera-contratto di assunzione come informatore scientifico) - la pubblicità del codice disciplinare era superflua - dal momento che se ne deve presumere conosciuto l'obbligo inadempiuto, in dipendenza della ricezione della stessa lettera-contratto pervenuta a controparte (ai sensi dell'art. 1335 c.c.) - e, peraltro, il lavoratore frequentava raramente ("una volta all'anno", per sua ammissione) la sede napoletana della società - ove il codice andava affisso - mentre la pubblicità del codice risulta, addirittura, "non necessaria", in quanto "corrisponde a comune nozione etica che il reiterato inadempimento di un ordine legittimo del datore di lavoro, per giunta espressamente considerato condizione essenziale per lo svolgimento del rapporto, costituisce giusta causa di licenziamento".

Con il terzo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2965 c.c.), nonchè vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - la società ricorrente censura la sentenza impugnata per avere omesso di considerare che non trova applicazione - al lavoro che non sia svolto, come nella specie, nella sede dell'azienda - il termine di decadenza (di dieci giorni dalla contestazione dell'addebito), entro il quale deve essere inflitta la sanzione (ai sensi dell'art. 52 del c.c.n.l. di categoria).

Il ricorso non è fondato.

2. Invero la Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 29 novembre 1982), ha sostanzialmente esteso - ai licenziamenti disciplinari - soltanto alcune delle garanzie procedimentali, che sono previste (dall'articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ed. Statuto del lavoratori) per le sanzioni conservative.

Si tratta - per quel che qui interessa - della cd. pubblicità del codice disciplinare (di cui al comma 1), che sancisce "il principio fondamentale, per il quale chi è perseguito per un'infrazione dev'essere posto in grado di conoscere l'infrazione stessa e la sanzione", sulla falsariga del principio di legalità (nullum crimen, nulla poena sine lege), che è previsto per i reati, gli illeciti amministrativi e le sanzioni rispettive (art. 1 c.p., art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689).

Con specifico riferimento a tale garanzia (pubblicità del codice disciplinare, appunto), le sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 4823 del 1987) - componendo il contrasto di giurisprudenza, che era insorto nell'ambito della sezione lavoro di questa Corte - ha osservato che il potere disciplinare del datore di lavoro, per quanto riguarda le sanzioni conservative, non ha la sua fonte, direttamente ed esclusivamente, nella legge - stante il rinvio (dell'articolo 2106 c.c., intitolato Sanzioni disciplinari) ad altre fonti (quali le norme corporative e, nel vigente ordinamento post-corporativo, la contrattazione collettiva) - mentre il potere di licenziamento ha la sua fonte, direttamente, nella legge (art. 1 e 3 l. n. 604 del 1966, art. 2118 e 2119 cod. civ.) - che ne prevede, quali fattispecie legittimanti, la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo (per quel che qui interessa) - proponendone, contestualmente, definizioni adeguatamente determinate.

Muovendo da tali premesse, le sezioni unite pervengono, coerentemente, alla conclusione che la stessa garanzia - mentre trova, in ogni caso, applicazione integrale alle sanzioni conservative - non può ritenersi estranea alla materia dei licenziamenti - senza che ne risulti disattesa la pronuncia, interpretativa di accoglimento, della Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 29 novembre 1982, cit.) - ma non ne costituisce, tuttavia, condizione di validità nei casi in cui i comportamenti, addebitati al lavoratore, siano riconducibili - alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo - a prescindere da qualsiasi specificazione ulteriore.

Ad opposta conclusione si deve pervenire, invece, nel caso in cui si intenda sanzionare, con il licenziamento appunto, comportamenti, che non sarebbero - di per sè - riconducibili a dette nozioni legali, ma - in relazione alle peculiarità della attività e/o dell'organizzazione dell'impresa - possano integrare, tuttavia, specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, solo in forza di previsioni - da inserire, appunto, nel codice disciplinare - della normativa collettiva o di quella validamente posta dal datore di lavoro.

Solo in tale caso, infatti, la pubblicità del codice disciplinare risulta indispensabile per la conoscenza della giusta causa o giustificato motivo soggettivo, che di regola risulta dalla stessa legge.

Ne risulta, quindi, enunciato il principio di diritto - condiviso dalla giurisprudenza, ora consolidata, di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 4823/87, 935/88 delle sezioni unite, 5434/2003, 11108, 6974/2002, 13906/2000, 5044/99, 7884/97 della sezione lavoro) - secondo cui la pubblicità del codice disciplinare è necessaria, in ogni caso, al fine dalla validità delle sanzioni disciplinari conservative, mentre - al fine della validità del licenziamento disciplinare - non è necessaria qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo - come definiti dalla legge - mentre è necessaria qualora lo stesso licenziamento sia intimato per specifiche ipotesi giustificatrici del recesso, previste da normativa secondaria (collettiva, appunto, o legittimamente posta dal datore di lavoro).

Coerente con la funzione e con la natura del codice disciplinare - di atto unilaterale recettizio, con funzione normativa, destinato alla collettività dei lavoratori dell'impresa (o dell'unità produttiva) - risulta, poi, l'esplicita imposizione del mezzo di pubblicizzazione relativo ("affissione in luogo accessibile a tutti", appunto), con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza, ora consolidata, di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 1208/88 delle sezioni unite, 5262/88, 698, 2366, 2933 /89, 1045, 4072/90, 7082/91, 3845/97 della sezione lavoro) - non solo ne risulta esclusa, da un lato, la equipollenza di mezzi di esteriorizzazione di carattere individuale, anche se applicati alla generalità dei lavoratori (quale la consegna del contratto collettivo), ma pare imposta, dall'altro, la pubblicizzazione, nella forma (della affissione, appunto) tassativamente stabilita, "in luogo accessibile a tutti" - unico per la collettività che ne è destinataria - anche per quei lavoratori, che prestino la propria fuori dalla sede dell'impresa (o dell'unità produttiva) alla quale sono addetti.

Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata non merita censure, laddove ritiene invalide le sanzioni disciplinari conservative impugnate, in dipendenza dell'accertamento di fatto che - alle date dei comportamenti, che ne risultano sanzionati - non era stato ancora affisso il codice disciplinare nella sede della società - alla quale il lavoratore era addetto - pur prestando, fuori sede, la propria opera di informatore scientifico.

Nè tale accertamento di fatto merita censure sotto l'unico profilo - deducibile in sede di legittimità - del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

3. Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto - nella sentenza, impugnata con ricorso per Cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.) - non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 16213, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, nè, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito a giudice di legittimità (dall'art. 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.

Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (ex art. 384, 2 comma, c.p.c.) nè, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Lungi dal denunciare, specificamente, vizio di motivazione - nel prospettato accertamento di fatto della sentenza impugnata - il ricorrente sembra proporre - inammissibilmente, per quanto si è detto - un accertamento diverso dei medesimi fatti.

A prescindere dalle superiori considerazioni - peraltro assorbenti - lo stesso accertamento di fatto non risulta, comunque, inficiato - per quanto si è detto - da vizi di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

4. L'omessa pubblicità del codice disciplinare non comporta, invece, la invalidità del dedotto licenziamento disciplinare - alla luce degli stessi principi di diritto enunciati - in quanto il licenziamento stesso risulta motivato dall'inadempimento di uno specifico obbligo, derivante dal contratto F individuale di lavoro.

La decisione, sul punto, non deve essere cassata, tuttavia, in quanto risulta autonomamente sorretta dalla ragione concorrente - che ne viene addotta a sostegno - secondo cui "non potrebbe sostenersi la proporzionalità del provvedimento risolutivo, fondato sulla reiterazione e progressività di tutti i precedenti disciplinari oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro.

5. Invero, nei licenziamenti disciplinari, è riservato al giudice di merito - non solo l'accertamento dei fatti addebitati al lavoratore, ma anche - il giudizio circa la gravita dei fatti medesimi e la loro proporzionalità rispetto al licenziamento (come ad ogni altra sanzione) disciplinare,- secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 4061, 215/2004, 17058, 14507, 12651, 12634, 12161, 12083, 12027, 9783, 3624/2003, 10775, 9410, 7188/2001, 14768, 14552, 8313, 4122/2000, 5042, 3645/99) - con la conseguenza che gli stessi accertamenti e giudizi di fatto possono essere sindacati - in sede di legittimità - sotto l'unico profilo - che, per quanto si è detto, è deducibile nella stessa sede - del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Ora non sembrano proposte - sul punto - specifiche censure della società ricorrente.

Tuttavia non risulta, comunque, denunciato vizio di motivazione - nell'accertamento e nel giudizio di fatto della sentenza impugnata - ma, in ipotesi, soltanto prospettato - inammissibilmente, per quanto si è detto - un accertamento diverso dei medesimi fatti.

A prescindere dalle superiori considerazioni - peraltro assorbenti - lo stesso accertamento e giudizio di fatto - sinteticamente riferito in narrativa - non risulta, comunque, inficiato - per quanto si è detto - da vizi di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

6. Il ricorso, pertanto, deve essere integralmente rigettato. Le spese dei presente giudizio di cassazione seguono la soccombenza (art. 385, 1 comma, in relazione all'art. 91, c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di Cassazione, che liquida in euro 18,00 euro 2.500 (duemilacinquecento) per onorario.

Così deciso in Roma, il 1 luglio 2004.