Svolgimento del processo
Con sentenza del 6 dicembre 2000 il Tribunale di Milano aveva rigettato la domanda proposta da L.P., diretta a far valere la nullità del contratto a termine stipulato il 5 dicembre 1998 con la s.p.a. P.I., e quindi ad impugnare, ai fini dell'applicazione della tutela reale nel posto di lavoro, il conseguente licenziamento alla scadenza del termine. Sull'impugnazione del P., la Corte d'appello di Milano, con sentenza del 26 giugno 2001, riformava la statuizione, dichiarando che il lavoratore doveva considerarsi assunto a tempo indeterminato dal 5 dicembre 1998 e condannando la società al pagamento delle retribuzioni maturate. Affermava la Corte territoriale che l'assunzione a termine era avvenuta in forza dell'art. 23 della legge n. 56 del 1987, che attribuisce alla contrattazione collettiva la possibilità di definire nuovi casi di legittima apposizione del termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962 ed in particolare in forza della clausola del C.C.N.L., espressamente richiamata nel contratto individuale, che consentiva il rapporto a termine per "Esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell'Ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell'attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane". La Corte, affermava che, in assenza di limiti testuali all'autonomia collettiva previsti dall'art. 23 della legge n. 56 del 1987 citato, sono consentite anche deroghe così ampie, purché non si perda di vista il dato essenziale, e cioè che il contratto a termine rimane una disciplina eccezionale, giacché l'architrave del sistema è ancora la legge n. 230 del 1962. Ciò premesso affermavano i Giudici di merito che l'ipotesi prevista dalla contrattazione collettiva, concernente il processo di ristrutturazione dell'Ente P., in difetto dell'indicazione di un termine, si tradurrebbe di fatto in una sospensione indeterminata dell'intero regime ordinario delle assunzioni, così consentendo, esclusivamente a detta società, di capovolgere il rapporto tra la regola generale dell'assunzione a tempo indeterminato e l'assunzione a termine; pertanto la Corte rinveniva la necessità che in dette fattispecie venga indicato un limite temporale, eventualmente da fissarsi nuovamente in prosieguo in caso di realizzazione "in fieri" dell'obiettivo preordinato. Proprio per questa ragione, soggiungeva la Corte, le organizzazioni sindacali che avevano concluso l'intesa originaria priva di termine, ne avevano poi contestualmente siglato un'altra, la quale aveva riconosciuto che l'impresa si trovava nelle condizioni previste sino al 31 gennaio 1998, raggiungendo poi accordi ulteriori per l'assunzione di personale straordinario con contratto a tempo determinato entro il 30 aprile 1998, mentre i differimenti successivi concernevano solo la causale della sostituzione di lavoratori in ferie e le assunzioni a tempo parziale. Pertanto l'assunzione del P., che era intervenuta in epoca successiva (5 dicembre 1998), era priva dello strumento derogatorio, onde la nullità del termine ed il riconoscimento del contratto a tempo indeterminato, restando irrilevante il successivo accordo del 18 gennaio 2001.
Ciò premesso i Giudici di merito escludevano che il recesso della società, che aveva fatto riferimento esclusivamente alla cessazione del rapporto per scadenza del termine, potesse considerarsi come licenziamento privo di giusta causa e quindi passibile dell'applicazione della tutela reale, affermando comunque che era privo di efficacia. La Corte condannava altresì la società al pagamento delle retribuzioni maturate, ritenendo in primo luogo che l'intimazione a ricevere la prestazione, per la quale non sono necessari requisiti formali, può essere presunta dal giudice quale ragionevole conseguenza dell'interesse del lavoratore alla continuità del rapporto e del diritto alle retribuzioni, salva la prova contraria a carico del datore, che nella specie non era stata offerta; inoltre che dall'art. 6 ultimo comma del R.D.L. n. 1825 del 1924, da considerare come espressione di un principio generale, si ricava che la mora si perfezione con la mera sospensione dal lavoro per fatto dipendente dal datore; in ogni caso la sospensione della prestazione ricollegabile al datore implica la permanenza del diritto alla retribuzione. Inoltre, se l'art. 1207 c.c. pone a carico del creditore il rischio, in quanto l'impossibilità fortuita della prestazione si presume causalmente connessa con la mora, la medesima conclusione deve valere a maggior ragione, quando tale impossibilità - perché le "operae" non ricevute sono definitivamente "peritae" - sia direttamente causata dal difetto di cooperazione creditoria.
Avverso detta sentenza la s.p.a. P.I. propone ricorso affidato a tre motivi.
Resiste il P. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 23 della legge n. 56 del 1987, nonché difetto di motivazione perché la Corte i di Milano avrebbe violato in primo luogo il citato art. 23, ritenendo di ricavare da essa un preciso limite temporale, mentre la legge conterrebbe una delega in bianco alla contrattazione collettiva; inoltre, sostituendosi indebitamente alla volontà delle parti collettive, avrebbero introdotto una limitazione temporale alla operatività della fattispecie in esame, mentre le parti medesime non l'avrebbero pattuita, perché gli accordi successivi al settembre 1997, contenevano una mera presa d'atto della persistenza della situazione di fatto corrispondente alla clausola legittimante il contratto a termine. Infatti l'accordo del 25 settembre 1997 ricollegava detta possibilità al perdurare della fase correlata alla trasformazione dell'Ente Poste in società per azioni, e d'altra parte non avrebbe avuto senso inserire una integrazione contrattuale di pochi mesi, per un fenomeno che le stesse parti affermavano essere in corso di attuazione. Inoltre nella riunione del 24 maggio 1999, quando la società si era dichiarata disponibile ad effettuare assunzioni a tempo determinato per circa 6.600 unità, le OO.SS. ne avevano rilevato l'insufficienza ai fini della funzionalità e del rilancio del servizio, e quindi nulla avevano eccepito sulla scadenza temporale dell'accordo del 25 settembre 1997. Infine con l'accordo del 18 gennaio 2001 le OO.SS. avevano definitivamente affermato che l'accordo del 25 settembre 1997 non era mai scaduto e quindi era ancora in vigore.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg. e difetto di motivazione, per avere la Corte di Milano violato il criterio di interpretazione letterale e quello teleologico fondato sulla ricerca della effettiva volontà delle parti, perché sarebbe inaccettabile che due atti di identico contenuto, ma con diverso termine di riferimento (31 gennaio e 30 marzo 1998) fossero stati posti in sequenza tra loro, senza avvedersi che gli stessi si differenziano non solo per la scadenza, ma anche per essere stati sottoscritti da organizzazioni sindacali diverse. Inoltre sarebbe stata data erroneamente preminenza ad un atto definito come "accordo attuativo" rispetto al contratto collettivo che è la norma primaria regolante la materia. L'art. 1362 c.c. sarebbe stato violato anche perché non si sarebbe tenuto conto del comportamento complessivo delle parti successivo alla stipulazione, in particolare non sarebbe stato valutato né l'"addendum" del C.C.N.L. del 2 luglio 1998 con cui le parti, preso nuovamente atto del persistere delle esigenze di ristrutturazione, stabilivano che l'accordo del 25 settembre 1997 si intendeva prorogato a tutto il 31 dicembre 1998, né l'art. 25 del c.c.n.l. 2001 in cui si prevedeva la possibilità di stipulazione di contratti a tempo determinato, con l'intesa che, prima di dare corso alle assunzioni, la materia avrebbe formato oggetto di confronto.
I primi due motivi di ricorso, che per la loro connessione conviene esaminare congiuntamente, non meritano accoglimento ancorché la motivazione della sentenza impugnata meriti alcune correzioni.
1) È noto che dopo le modifiche alla legge n. 230 del 1962 apportate dalle legge n. 18 del 1978 (di conversione del D.L. 3 dicembre 1977 n. 876) sulla possibilità, prevista in via provvisoria, di apporre un termine al contratto di lavoro durante le punte stagionali nel settore del commercio e del turismo, possibilità estesa poi in via definitiva a tutti i settori ad opera dell'art. 8 bis della legge 25 marzo 1983 n. 79 (di conversione del D.L. 29 gennaio 1983 n. 17), l'art. 23 della legge 28 febbraio 1987 n. 56 è la disposizione che consente una importante deroga al principio generale per cui il contratto di lavoro è a tempo indeterminato, "nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. " Si è invero in presenza di uno dei primi esempi di quella tendenza, destinata ad estendersi sempre più nella normativa successiva, di affidare all'autonomia collettiva la possibilità di deroga ad alcune regole generali, che lo stesso legislatore aveva introdotto: si tratta, (l'elencazione è meramente esemplificativa), dell'art. 48 comma 5° legge 29 dicembre 1990 n. 428, che nel caso di trasferimento d'azienda in crisi, conferisce all'accordo sindacale il potere di derogare al principio di cui all'art. 2112 c.c. per cui il rapporto di lavoro continua con l'acquirente; si tratta ancora, art. 5 legge 23 luglio 1991 n. 223, della possibilità, in caso di licenziamento collettivo, di concordare con le associazioni sindacali crateri di scelta del personale da collocare in mobilità diversi da quelli legali; ed ancora, art. 16 della legge 27 novembre 1998 n. 409 di conversione del D.L. 29 settembre 1998 n. 335, dell'affidamento alla contrattazione collettiva della disciplina del lavoro straordinario nelle imprese industriali, la cui prestazione era in precedenza vietata dal R.D.L. 15 marzo 1923 n. 692. In tali casi l'accordo con le associazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale viene ritenuto sufficientemente affidabile per introdurre forme di flessibilizzazione anche in deroga a principi che il legislatore medesimo aveva introdotto in relazione a situazioni ritenute particolarmente meritevoli di tutela.
2) Identica è la ratio dell'art. 23 della legge n. 56 del 1987, in cui si è demandato alle associazioni sindacali, ritenute dotate di sufficiente affidabilità in quanto aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, di prevedere ipotesi di contratti a termine oltre quelle già previste dalle disposizioni di legge, ossia dalla legge n. 230 del 1962; è quindi possibile introdurre fattispecie "diverse" da quelle legali, posto che la norma dispone che l'apposizione del termine sia consentita "oltre che nelle ipotesi di cui all'art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230 ...".
L'autonomia sindacale è pertanto del tutto svincolata dalle ipotesi già configurate dalla legge, e può introdurre altre completamente diverse, senza essere astretta a quel limite temporale che viene invece ravvisato nella sentenza impugnata (che pure in altra parte della motivazione contraddittoriamente ammette la possibilità di deroghe senza limitazioni), ma che non trova alcun riferimento né testuale, né di ratio nella disposizione normativa. Ed infatti l'unica prescrizione che il legislatore pone all'autonomia collettiva è quella di stabilire la percentuale di lavoratori a termine rispetto alla percentuale di lavoratori a tempo indeterminato. Si tratta dunque di una delega in bianco per quanto riguarda la individuazione di nuove ipotesi di contratto a termine rispetto a quelle legali. Mentre, come è stato già ripetutamente affermato da questa Corte, anche la legge in commento si inserisce nel complesso sistema delineato dalla legge n. 230 del 1962, nel senso che restano applicabili le regole da questa prescritte, come ad es. la trasformazione in un unico rapporto a tempo indeterminato dei successivi contratti a termine posti in essere con intento elusivo delle disposizioni di legge (Cass. n. 7519 del 30 luglio 1998), ed anche la regola per cui l'onere probatorio sulle condizioni che giustificano sia l'assunzione a termine, sia la sua temporanea proroga è a carico del datore di lavoro (Cass. n. 3843 del 29 marzo 2000 e n. 8532 del 26 maggio 2003).
3) Erra dunque la sentenza impugnata quando rinviene nel sistema delineato dalla legge la necessità che - ove le nuove ipotesi di contratto a termine siano dotate di particolare ampiezza tale da capovolgere il rapporto tra la regola generale dell'assunzione a tempo indeterminato e l'assunzione a termine - la norma contrattuale debba necessariamente avere una efficacia temporale limitata, perché, come già detto, l'autonomia collettiva non trova limiti nella legge per quanto riguarda la tipologia delle nuove ipotesi di contratti a termine da introdurre. Ed in tal senso va corretta la motivazione della sentenza, la quale resta comunque conforme a diritto, avendo ancorato il termine di validità alle pattuizioni contrattuali.
4) Va infatti rilevato che i Giudici di merito hanno poi correttamente ravvisato che, di fatto, le parti collettive avevano fissato un limite di tempo alla facoltà di assunzioni a termine, e detto rilievo non viene inficiato dal precedente errore di diritto per cui l'apposizione del termine medesimo sarebbe necessitata ex lege, giacché la disposizione normativa viene considerata un motivo in più per conferire valore alla volontà delle parti, la quale però viene presa in considerazione anche come elemento autonomo. Né è ravvisabile la violazione di alcun canone ermeneutico nella interpretazione della clausola contrattuale, avendo la Corte rilevato che dopo l'intesa originaria, che era priva di termine, le parti ne avevano stipulato contestualmente un'altra, con cui si riconosceva che l'impresa si trovava nelle condizioni previste fino al 31 gennaio 1998, termine poi prorogato con successivi accordi fino al 30 aprile 1998, di talché l'assunzione del P. effettuata il 5 dicembre 1998, e quindi dopo quella scadenza, era priva di strumento derogatorio.
La sentenza impugnata ha correttamente, sia pure implicitamente, rispettato il canone ermeneutico di cui all'art. 1367 c.c. che impone che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, attribuendo significato ai c.d. "accordi attuativi" con cui venivano stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nell'accordo originario del 25 settembre 1997. Ed infatti, diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non intendessero introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che i c.d. accordi attuativi erano senza senso.
5) Né le altre censure contenute in ricorso valgono ad inficiare la ricostruzione della volontà delle parti come operata dai Giudici di merito: in particolare resta irrilevante la circostanza dedotta per cui le associazioni sindacali non avrebbero consentito altre proroghe intendendo esse insistere per un più intenso ricorso alle assunzioni a termine; parimenti inidoneo all'annullamento della statuizione appare il richiamo all'accordo del 18 gennaio 2001, stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell'ultima proroga, giacché il relativo testo non viene riportato in ricorso, non permettendo così alla Corte di effettuare alcun tipo di controllo sulla valutazione espressa dalla Corte di Milano sulla sua irrilevanza. Resta del pari irrilevante l'ulteriore circostanza allegata ossia che l'art. 25 del C.C.N.L. del 2001 prevedesse che la contemplata possibilità di assunzioni a termine costituiva materia che sarebbe stata oggetto di confronto tra le parti: in primo luogo perché la clausola, per come riferita, concerneva le assunzioni da effettuare dopo l'entrata in vigore del nuovo C.C.N.L., ed in secondo luogo perché la stessa vale anzi a riconfermare che le associazioni sindacali intendevano partecipare alla regolamentazione della materia, ancorché fosse stata astrattamente concordata nel C.C.N.L..
Altrettanto generiche sono sia la prospettazione per cui gli accordi attuativi con scadenza 31 gennaio e 30 marzo 1998 sarebbero stati sottoscritti da organizzazioni sindacali diverse, sia la doglianza sulla mancata valutazione dell'addendum del C.C.N.L. del 2 luglio 1998 con cui le parti, preso nuovamente atto del persistere delle esigenze di ristrutturazione, avrebbero stabilito che l'accordo del 25 settembre 1997 si intendeva prorogato a tutto il 31 dicembre 1998. Infatti, in relazione a quest'ultimo punto, la clausola dell'addendum non è stata riportata; inoltre, poiché i Giudici di merito non hanno fatto alcun riferimento a nessuna di dette due circostanze in fatto, era necessario allegare di averle già sottoposta al vaglio nei gradi di merito.
6) Con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e difetto di motivazione, per avere la Corte territoriale affermato che spetta al datore dimostrare il disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto, facendo così carico di un onere di diabolica difficoltà. La Corte avrebbe omesso di valutare la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro. Il motivo è fondato.
In primo luogo la disposizione citata dalla Corte di Milano, ossia l'art. 6 del R.D.L. n. 1825 del 1924, è stata erroneamente richiamata in quanto si riferisce al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In ogni caso la soluzione adottata contrasta con il principio ormai consolidato a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 2334 del 5 marzo 1991, per cui il giudice che accerti l'illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro subordinato e, pertanto, dichiari, a norma dell'art. 1 della legge n. 230 del 1962, la sussistenza i un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non può condannare il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni successive alla scadenza del termine, senza che il lavoratore provi di avere inutilmente offerto le proprie prestazioni (Cass. n. 1734 del 18 febbraio 1998, n. 12752 del 21 dicembre 1998, n. 7186 del 26 maggio 2001, 12697 del 17 ottobre 2001), ciò in forza dei principi di effettività e di corrispettività del rapporto di lavoro, secondo cui, al di fuori delle espresse regole legali o contrattuali, il diritto alla retribuzione sussiste solo in caso di effettivo svolgimento dell'attività lavorativa.
Il terzo motivo va quindi accolto e la sentenza impugnata va cassata sul punto, rimettendosi al giudice del rinvio, che si designa nella Corte d'appello di Brescia, di accertare se il lavoratore abbia offerto la prestazione lavorativa, determinando così la messa in mora.
Il Giudice del rinvio provvedere anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso ed accoglie il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Brescia.
Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2003.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2004.