Svolgimento del processo
Il Tribunale di Torino, respingendo l'appello, ha confermato la sentenza del pretore del luogo con la quale era stata rigettata l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dalla Società S. (Omissis) all'impiegato C. C., al quale era stato contestato di avere prolungato di tre giorni il periodo di ferie senza alcuna autorizzazione datoriale.
Il Tribunale ha ritenuto essere del tutto irrilevante che il codice disciplinare fosse affisso in locali nei quali il C. non aveva accesso, trattandosi di violazione di doveri fondamentali del lavoratore. L'assunto del C., secondo cui era prassi che gli impiegati (diversamente dagli esattori per i quali vigevano regole più rigorose) potessero modificare il piano di ferie prescindendo dall'autorizzazione dei superiori, non aveva trovato conferma nelle acquisizioni probatorie. Non provata era pure una sua prima richiesta di ferie per i giorni in questione - 9, 10 e 11 settembre 1996 - con la quale intendeva prolungare il periodo di ferie precedentemente autorizzato e che assumeva di avere inoltrato, tramite posta interna, verso la fine del mese di luglio. Parimenti era a dirsi di una seconda richiesta, che sarebbe stata inviata, con lo stesso mezzo, il 13 o il 14 agosto. In ogni caso - continuava il Tribunale - quel che rilevava era che il C., avesse o non avesse presentato le due domande, decise di assentarsi sebbene fosse consapevole che l'autorizzazione era necessaria e fosse a conoscenza che questa non gli era pervenuta. Riteneva, infine, che la sanzione inflitta era proporzionata alla mancanza contestata, trattandosi di comportamento idoneo a menomare gravemente il vincolo fiduciario, prescindendo da qualsiasi considerazione sull'entità del danno eventualmente arrecato all'organizzazione aziendale.
Avverso questa decisione C. C. ricorre per Cassazione con due motivi, cui la S. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), il ricorrente critica l'impugnata sentenza per avere il Tribunale ritenuto irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare nel luogo di lavoro ove operava il lavoratore licenziato, senza considerare che l'addebito mosso allo stesso non rientra tra le infrazioni costituenti reato o violazione delle regole fondamentali del vivere civile. Nella specie, trattavasi invece di una mancanza destinata ad assumere una differente rilevanza a seconda del contesto organizzativo e/o produttivo dell'azienda o del settore ove il prestatore si trovi ad operare. In tali casi, occorre che o per accordo tra le parti o per iniziativa del datore di lavoro sia determinata l'entità dell'assenza, espressa in numero di giornate, oltre la quale essa diviene non tollerabile e conseguentemente sanzionata con il licenziamento. Nella specie, tale soglia non risultava predeterminata e tanto meno portata a conoscenza del lavoratore per mezzo del codice disciplinare.
Il motivo è infondato. Il fatto che, secondo la prospettazione del ricorrente, il contratto collettivo non prevedesse, come invece accade in altri settori, la durata minima dell'assenza ingiustificata, oltre la quale il datore di lavoro è facultato a recedere, non impediva al Tribunale di valutare la gravità dell'inadempienza del lavoratore, al fine di giudicare sulla legittimità del licenziamento. Quanto, poi, alla ritenuta irrilevanza della mancata affissione del codice disciplinare nel luogo di lavoro, la decisione del Tribunale è in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte, che ritiene necessaria la verifica dell'osservanza di tale formalità solo quando si tratti di violazioni di doveri che discendono da disposizioni del datore di lavoro o del contratto collettivo, non quando esse traggano origine direttamente dalla legge (Cass., 9 agosto 2001 n. 10997; 16 maggio 2001 n. 6737; 10 novembre 2000 n. 14615). E che l'obbligo di rendere la prestazione rientri tra i doveri fondamentali (e non accessori) del lavoratore costituisce giudizio pienamente aderente al dettato legislativo (art. 2104 c.c.) e alla logica comune, e quindi non censurabile in sede di legittimità. Correttamente poi il Tribunale ha ritenuto non rilevante accertare se l'assenza del lavoratore avesse o meno nuociuto all'organizzazione aziendale, considerato che l'esistenza di un danno non è elemento costitutivo della fattispecie di inadempimento che legittima il licenziamento (Cass., 23 giugno 2000 n. 8553; 3 marzo 2000 n. 2404).
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 2106 c.c., dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, dell'art. 2109 c.c., dell'art. 36 Cost., dell'art. 1175 c.c., nonché vizio di motivazione, il ricorrente critica l'impugnata sentenza per avere il Tribunale giudicato il prolungamento delle ferie, peraltro richiesto nella consapevolezza che non occorresse attendere l'autorizzazione, alla stessa stregua di un'assenza ingiustificata, in nessun modo motivata, o alla stregua di un prolungamento delle ferie nonostante l'espresso rifiuto o divieto del datore di lavoro. Distinzione che il giudice del merito avrebbe invece dovuto tenere presente, valutando che il diretto superiore gerarchico del C., G. F., aveva riferito che, considerato anche il periodo, la presenza del ricorrente non era indispensabile in quei giorni. Al fine del giudizio di proporzionalità, andava considerato che le ferie costituiscono un diritto del lavoratore garantito dalla Costituzione, sia pure condizionato all'assenso, ma non all'arbitrio, del datore di lavoro. Inoltre, sempre ai fini del controllo sulla proporzionalità della sanzione, andava considerato che in azienda vigeva una pratica di tolleranza in materia di ferie, come provava il fatto che il lavoratore già in altre occasioni si era limitato a preavvertire della fruizione di giorni di ferie (teste S. R.), senza incorrere in qualsivoglia richiamo o contestazione. Sotto il profilo soggettivo, non valutato dal Tribunale, non poteva non avere rilevanza la pregressa vita lavorativa del dipendente, che in ben undici anni di lavoro alle dipendenze della S.. non aveva subito neppure un semplice rimprovero. L'accaduto, attesa la personalità del lavoratore così delineata, si caratterizzava come comportamento destinato verosimilmente a non ripetersi, sicché la sanzione espulsiva si rivelava sicuramente eccessiva rispetto ad una lesione non irreparabile del nesso fiduciario.
Il motivo è infondato. È evidente infatti che non può farsi alcuna differenza in base alle ragioni che possano indurre un lavoratore ad assentarsi senza autorizzazione: se per prolungare il periodo di ferie in corso o per concedersi una pausa straordinaria durante il periodo lavorativo. In entrambi i casi il dipendente non si presenta sul luogo di lavoro, ove è atteso, per rendere la prestazione alla quale è tenuto.
D'altra parte, il Tribunale ha sottolineato come il C. in nessuna occasione abbia dato spiegazioni sulle ragioni che l'avrebbero indotto ad assentarsi. Né rileva il fatto che le prestazioni del lavoratore, secondo il giudizio del suo diretto superiore, non fossero indispensabili in quei giorni.
Esattamente il Tribunale ha argomentato che spettano solo al datore di lavoro le valutazioni di carattere organizzativo. E va aggiunto che in questo argomentare riemerge una circostanza irrilevante, quale l'assenza di danno, a fronte di un comportamento del dipendente contrario a fondamentali obblighi di diligenza, capace di compromettere irreparabilmente la fiducia del datore di lavoro circa l'esattezza delle future prestazioni lavorative, pur in assenza di procedimenti disciplinari.
Sotto l'aspetto soggettivo, il Tribunale ha escluso che fosse stato provato che il Caracciolo in precedenza aveva fruito di permessi o ferie con autorizzazione postuma. Non solo. Ha anche spiegato che non v'era nessuna prova delle due richieste di prolungamento delle ferie, che il C. assumeva di avere presentato verso la fine del mese di luglio e nuovamente il 13 o 14 agosto.
La sentenza impugnata, che ha esaminato ogni aspetto della vicenda sottoposto al suo vaglio, appare quindi improntata a corretti principi giuridici ed esente da vizi logici (Cass., 18 settembre 2000 n. 12308; 26 maggio 2001 n. 7193; 23 gennaio 2002 n. 736). Da ciò discende il rigetto del ricorso, con le conseguenze di legge in ordine alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese in € 24,62 (ventiquattro/62), oltre € 2.000,00 (duemila/00) per onorario.
Così deciso in Roma il 16 gennaio 2002.