Svolgimento del processo
Con ricorso 11 luglio 1990, il sig. M. T., funzionario della Banca P. S. P. s.r.l., premesso: di essere rimasto coinvolto in tre rapine perpetrate ai danni dell'Istituto di credito; che, già dopo la seconda rapina, aveva inutilmente chiesto al Direttore Generale di detta Banca il trasferimento ad altra sede più protetta; che, per effetto degli eventi criminosi, era stato colpito da un "grave stato" di malattia nervosa, sempre documentata, tanto da essere sottoposto anche a visite di controllo; che, soltanto in data 6 febbraio 1989, era stata accolta la sua domanda di trasferimento, per essere peraltro assegnato - presso la direzione generale di Matino - a compiti dequalificanti; che la mancata soddisfazione di ogni legittima aspettativa aveva favorito il protrarsi del suo stato di malattia, sulla quale la Banca aveva poi basato il licenziamento - comunicatogli con lettera del 28 maggio 1990 - per superamento del periodo di comporto e, comunque, per inidoneità psico-fisica a svolgere le mansioni di funzionario di Banca.
Tanto premesso, il T. chiedeva al pretore di Lecce la declaratorio di illegittimità dell'intimato licenziamento, con le conseguenti statuizioni: ordine di reintegra nel posto di lavoro, risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni maturate dalla data di recesso, condanna della Banca convenuta al risarcimento del danno biologico ed, eventualmente, di quello patrimoniale ove fosse stata ritenuta la legittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica, da quantificarsi, rispettivamente, in L. 400 milioni e L. 800 milioni, oltre L. 50 milioni per danni morali, nonché la condanna della stessa Banca al pagamento di L. 12.240.000, a titolo di indennità sostitutiva per 72 giorni di ferie non godute, e di L. 4.900.000 quale premio fedeltà.
Nella resistenza della convenuta Banca P. S. P., il pretore adito condannava quest'ultima al pagamento della somma di L. 166.442.107, con gli accessori, a titolo di risarcimento del danno biologico e di quello patrimoniale e rigettava ogni altra domanda del ricorrente.
Avverso la decisione del pretore, entrambe le parti proponevano appello.
Con sentenza 14 marzo-18 maggio 1995, il Tribunale, riuniti gli appelli, rigettava il gravame della Banca ed, in parziale accoglimento dell'impugnazione proposta dal T., condannava la Banca medesima al pagamento, con gli accessori di legge, rispettivamente delle complessive somme di L. 254.177.820 e di L. 50.000.000.
Rigettata la preliminare eccezione di ultra petizione, formulata dalla Banca, secondo cui la sentenza di primo grado era fondata su fatti non dedotti in giudizio dal ricorrente, osservava innanzi tutto il Tribunale che l'art. 10 dell'Accordo integrativo aziendale 1 luglio 1988 (intitolato "garanzie volte alla sicurezza sul lavoro"), alla lettera a), aveva previsto che "nel quadro delle garanzie volte alla sicurezza sul lavoro" l'Azienda si era impegnata ad adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi nei confronti delle persone e del patrimonio aziendale, "con particolare riferimento a tutte le possibilità di accesso all'interno delle strutture della Banca. Ogni dipendenza sarà fornita di doppia porta con metal detector o di analoga misura di sicurezza, in modo tale da garantire comunque gli standard minimi di sicurezza esistenti nella piazza". Rilevava, quindi, il Tribunale che tale previsione non poteva esonerare la Banca dalla responsabilità civile nei confronti dei propri dipendenti per il solo fatto di avere adottato l'unica misura di sicurezza "tipizzata" dall'accordo collettivo. Il controllo dell'accesso alla filiale attraverso la c.d. porta a consenso con metal detector od altra misura analoga era stato, difatti, espressamente indicato soltanto quale misura minima (comunque) inderogabile, ma l'indicato accordo previsto a carico della Banca l'obbligo di adottare "tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi", un impegno, cioè, superiore all'onere dell'ordinaria diligenza che - ai sensi degli artt. 1176 e 2043 c.c. - segna il limite delle responsabilità per danni. Dette misure - proseguiva il Tribunale - dovevano prevenire specificamente anche le aggressioni nei confronti delle persone, così che esattamente il pretore aveva determinato il complesso delle misure di sicurezza che, alla stregua di una valutazione ex ante e del criterio dell'ordinaria diligenza, la Banca era tenuta ad adottare ed, in mancanza delle quali, doveva rispondere, ai sensi dell'art. 2087 c.c., dei danni derivati al proprio dipendente dall'evento criminoso.
Le conclusioni cui, peraltro, era pervenuto il primo giudice (il quale aveva ritenuto la necessità di adottare la "porta a consenso con metal detector, piantonamento diurno con guardia giurata o sorvegliante addetto ad una guardiola blindata, sistema d'allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine") dovevano, quindi, essere pienamente condivise. Ciò perché - secondo il Tribunale - le misure di protezione poste in essere presso uno sportello bancario, tendendo ad evitare uno specifico comportamento (la porta a consenso con metal detector serve, infatti, ad impedire l'accesso in banca ad individui armati) e, congiuntamente, a scoraggiare iniziative criminose contro la sede protetta, debbono avere un livello di sicurezza adeguato. L'insufficienza del quale rende, invero, di per sé una determinata filiale (e, nella fattispecie, quelle presso cui aveva operato il T.) obiettivo preferenziale per i rapinatori ed espone, conseguentemente, i lavoratori a rischi maggiori per effetto di colpose omissioni da parte dell'azienda.
Osservava altresì il Tribunale che proprio le rapine, subite dal T., non si sarebbero ragionevolmente verificate se, in ciascuna delle filiali, vi fossero stati la vigilanza armata esterna e un dispositivo d'allarme collegato con le forze dell'ordine o con un istituto di vigilanza. Con la doverosa precisazione che non si trattava (qui) di prevedere se una tutela armata della filiale - da parte di una guardia esterna e delle forze dell'ordine immediatamente allertabili - avrebbe, in via di mera ipotesi, potuto cagionare più gravi danni al dipendente, per essere anche costui esposto all'eventualità di un conflitto armato.
Secondo il giudice d'appello, infatti, ai fini del nesso di causalità tra l'omissione - da parte della Banca - delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c. e l'evento dannoso accaduto al dipendente era necessaria l'idoneità delle misure omesse a prevenire l'evento criminoso, in quanto tali da scoraggiare i rapinatori, oltre che proteggere i lavoratori presenti in filiale, idoneità oltretutto ricorrente nella specie in esame.
D'altra parte, una conferma dell'efficacia deterrente anche della sola vigilanza fissa era desumibile, proprio per la filiale di Guagnano, anche dalla circostanza che, nel periodo tra il 26 luglio 1985 e il 5 settembre 1986, (durante il quale era stata adottata la vigilanza fissa), essa non aveva subito alcuna rapina, mentre - una volta eliminata detta vigilanza - era stata oggetto di due rapine nel 1987 e nel 1988.
Aggiungeva, infine, il Tribunale, in relazione ad una specifica deduzione della Banca, che, pur in mancanza di una formale richiesta scritta del T., era ben noto alla stessa Banca il desiderio del dipendente di prestare servizio presso una sede diversa da quella di Guagnano e che l'attribuzione di tale desiderio soltanto alla maggiore distanza di detta sede rispetto a quella di Lizzanello sembrava un'illazione ingiustificata, avendo la Direzione della Banca avuto piena cognizione dei disturbi di natura psichica del T.. Di modo che sarebbe stato più conforme agli obblighi di correttezza e di tutela della salute del dipendente (artt. 1375 e 2087 c.c.) un impegno aziendale per una diversa collocazione lavorativa dello stesso dipendente.
Osservava, in proposito, il Tribunale che tale profilo di colpa della Banca costituiva soltanto un elemento aggiuntivo, posto dal pretore a fondamento dell'affermazione di responsabilità per danni, già sussistente per la violazione dell'art. 2087 c.c., e che avrebbe certamente agevolato la guarigione ed il reinserimento lavorativo del dipendente per effetto dell'immediata prospettiva di dover ritornare ad operare (non più nella sede di Guagnano, ma) altrove.
Contro la pronuncia del Tribunale di Lecce, la Banca P. S. P. s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a nove motivi.
Resiste con controricorso, M. T., che spiega, a sua volta, ricorso incidentale, fondato su un unico motivo, cui resiste con controricorso, la Banca.
Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Deve, preliminarmente, essere disposta, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi principale ed incidentale, in quanto proposti contro la stessa sentenza.
Il primo motivo del ricorso principale contiene la denuncia di violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e degli artt. 99, 112, 414, n. 4, 416, 429 e 521 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per avere il Tribunale erroneamente affermato la responsabilità della Banca per omessa adozione di misure di sicurezza antirapina sulla base di fatti non allegati nel ricorso introduttivo del T..
La ricorrente principale sostiene che il ricorso del lavoratore al pretore non aveva invocato - a sostegno della domanda - lo specifico fatto (omissione, cioè, di un "sistema di allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine") su cui, invece, si fonda la sentenza impugnata.
Deduce, infatti, che, in questa situazione, all'udienza dell'8 gennaio 1992 il pretore aveva ordinato d'ufficio un'inammissibile istruttoria "esplorativa" e che il Tribunale ha, però, rigettato il motivo d'appello proposto (sul punto) della Banca, sul rilievo generico che il T. avrebbe "esposto analiticamente i fatti posti a fondamento della sua domanda".
Ne trae che, in tal modo, la decisione denunciata ha commesso un "gravissimo" errore di diritto consistente nella confusione del potere del giudice del lavoro di istruire d'ufficio i fatti allegati dalle parti con il ben diverso potere, proprio di un processo sostanzialmente inquisitorio e sconosciuto al nostro ordinamento del processo civile e del lavoro di acquisire al giudizio ed utilizzare, per la decisione, qualsiasi fatto ritenuto rilevante dall'ufficio a prescindere dalle allegazioni delle parti".
Perciò, conclude e denuncia, il Tribunale ha violato ed applicato falsamente le norme sopra richiamate poiché il combinato disposto dell'art. 414, n. 4, c.p.c. e art. 420 c.p.c. impone al ricorrente di esporre - nell'atto introduttivo del giudizio - tutti i fatti che ritiene rilevanti come fondamento della domanda, vietando qualsiasi successiva aggiunta o modificazione delle allegazioni e senza che il giudice possa sostituirsi al ricorrente per l'introduzione in giudizio di fatti diversi da quelli contenuti nel ricorso.
La censura è infondata.
Come è noto, il processo del lavoro non diverge dal processo civile ordinario per quanto attiene al rispetto integrale del principio della domanda. Elemento del quale (artt. 99 e 112 c.p.c.) è il c.d. onere dell'allegazione: l'onere, cioè, dell'attore di dedurre i fatti costitutivi e, rispettivamente, del convenuto di dedurre i fatti impeditivi ed estintivi della situazione sostanziale, oggetto del giudizio, ed il correlativo vincolo del giudice a pronunciare soltanto sulla base di essi. L'art. 414, n. 4, c.p.c. e art. 416 c.p.c. impongono, quindi, di individuare questi fatti sin dalle scritture introduttive (ricorso e memorie difensiva), così che il thema decidendum e di conseguenza, il thema probandum siano fin d'allora determinati (cfr. ex plurimis: Cass., n. 6381 del 1981, n. 2994 del 1982 ed altre).
La regola dell'onere della prova, intesa come ripartizione tra l'attore e il convenuto del rischio della prova ed il correlativo principio di disponibilità della medesima, dunque, vigono anche nel processo del lavoro, sebbene, in esso, siano accentuati i poteri istruttori del giudice, atteso che l'art. 421 c.p.c. non dispensa la parte dall'onere di allegare i fatti né dall'onus probandi, ma abilità soltanto il giudice, nel rispetto della garanzia del contraddittorio, ad integrare, e non a sostituire, la prova dei fatti affermati.
Nell'ambito della direttiva di completezza delle difesa, che informa di sé l'intero processo del lavoro, è imposto, perciò, alle parti di indicare specificamente, sin dal ricorso introduttivo (art. 414, n. 5, c.p.c.) e dalla memoria di costituzione del convenuto (art. 416, terzo comma, c.p.c.) i mezzi di prova, dei quali intendono avvalersi.
Pertanto, il giudice del merito, non può porre a fondamento della sua decisione fatti non specificamente affermati dalle parti, essendogli, tuttavia, consentito, ai sensi del primo comma dell'art. 421 c.p.c., l'esercizio del potere-dovere di indicare alle parti stesse "in ogni momento le irregolarità" dei loro atti che possono essere sanate e di assegnare ad esse un termine per provvedervi, salvi gli eventuali diritti quesiti.
Per quanto riguarda il contenuto di detto potere-dovere, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che il permanere dell'incompletezza non determinerebbe la inammissibilità della prova, in quanto il richiamato art. 421 c.p.c. tende ad evitare tale risultato "in un'ottica di collaborazione fra giudice e parte e di affidamento al primo del compito di verificare che il buon andamento del processo non venga compromesso da vizi formali ai quali sia ancora possibile porre rimedio" (Cass., Sez. Un., n. 262 del 1997). Di guisa che, fermo restando che il rito del lavoro tende a contemperare - in considerazione della particolare natura dei rapporti controversi - il principio dispositivo (che obbedisce alla regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova) con quello della ricerca della verità materiale, mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo (Cass., n. 6995 del 1996), sarebbe, tuttavia, inammissibile una dilatazione di quel potere-dovere tale, da consentire al giudice di porre rimedio - con l'esercizio, appunto, della facoltà ex officio -, alle decadenze (maturate), cui è improntato il processo del lavoro (cfr. Cass., n. 9550 del 1994, n. 8020 del 1996 ed altre).
Orbene, dall'impugnata sentenza si evince che il Tribunale, esaminando lo specifico mezzo di impugnazione sul punto proposto dalla Banca, ha messo in evidenza che "nel ricorso al pretore depositato l'11 luglio 1990, il T. ha esposto - analiticamente i fatti posti a fondamento della sua domanda, formulando espressamente una richiesta di risarcimento del danno cagionato dalla mancata adozione di misure di sicurezza nelle agenzie presso le quali egli aveva operato e citando numerose circostanze in cui era stata rappresentata alla Banca la carenza verificata anche da soggetti qualificati, tra cui il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Guagnano -, su tutti i fatti articolati nel ricorso, poi, a differenza di quanto sostenuto dalla Banca appellante, il T. ha chiesto nello stesso atto introduttivo prova per testi, indicando già proprio coloro che erano informati sulla dedotta mancanza di misure di sicurezza". In tal modo, si deve escludere che il giudice dell'appello abbia fondato il proprio convincimento su fatti mai allegati, giacché, sui medesimi, il ricorrente aveva già dedotto prova orale, che aveva trovato rituale ingresso sulla scorta del requisito della deduzione dei fatti posti a suo fondamento.
Con il secondo motivo del ricorso principale, si denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1362 c.c. e segg. e art. 2087 c.c., degli artt. 39 e 41 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento all'interpretazione dell'art. 10 dell'accordo integrativo aziendale in materia di sicurezza, dell'art. 144 del C.C.N.L. del 1987, artt. 149 e 153 del C.C.N.L. del 1990, per avere il Tribunale erroneamente affermato l'obbligo della Banca all'attuazione di misure antirapina non previste da tale accordo, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.
Secondo la ricorrente principale:
a) nell'accordo integrativo aziendale 1° luglio 1988, l'art. 10 ("garanzie volte alla sicurezza sul lavoro") aveva previsto - come misura di sicurezza dovuta dal datore - soltanto la tutela degli accessi ed, in particolare, "la doppia porta con metal detector" o altra misura analoga per "garantire comunque gli standard minimi di sicurezza esistenti nella piazza".
Ma la Banca aveva dato completa attuazione anche a quella misura di sicurezza, poi ritenuta come l'unica indispensabile dagli stessi sindacati, che avevano sottoscritto l'accordo;
b) la sentenza impugnata ha, però, ritenuto (erroneamente) che essa, attuale ricorrente principale, fosse obbligata ad adottare pure altre misure.
Sennonché, di fronte ad una specifica previsione collettiva, destinata all'individuazione di uno standard "minimo inderogabile" di sicurezza, il giudice non potrebbe (né può) pretendere di gravare l'imprenditore di obblighi aggiuntivi "non conoscibili ex ante" per il loro incerto contenuto.
Del resto, che la tecnica di prevenzione delle rapine fosse materia opinabile ed in continua evoluzione, rispetto alla quale sarebbe stato irragionevole una "certosina" ricerca di giuridiche responsabilità oltre le specifiche previsioni collettive, era stato inequivocamente attestato dalla stessa piattaforma sindacale del 1992, peraltro ignorata nella sentenza impugnata, che, a distanza di ben cinque anni dalle rapine de quibus, non aveva richiesto puramente e semplicemente l'introduzione di determinate misure di sicurezza (né tanto meno di quelle individuate dal Tribunale), ma soltanto di poter procedere, insieme con il datore, allo studio del problema per cercare di "individuare" le migliori soluzioni possibili;
c) l'erronea interpretazione della disciplina collettiva ha altresì impedito di tenere conto della decisiva circostanza per cui l'esistenza di una doppia porta con metal detector o di analoga misura aveva garantito "gli standard minimi di sicurezza esistenti nella piazza". Sicché, con l'adozione di tale misura, era stata garantita proprio quella uniformità locale di comportamento che lo studio ABI del 1983 (ritenuto dal giudice d'appello "particolarmente qualificato") aveva considerato decisiva per evitare una sorta di inutile concorrenza con "semplice trasferimento di rischio verso altri Istituti di credito".
Il Tribunale ha, invece, introdotto un'inconcepibile distinzione tra misure di prevenzione delle aggressioni al patrimonio (caveaux blindati e cassaforte a tempo) e misure dirette alla prevenzione delle aggressioni alle persone, senza, però, rendersi conto che proprio le misure del primo tipo (adottate, nella specie, addirittura, in anticipo sui tempi concordati) erano le più idonee a scoraggiare le rapine e, quindi, ad evitare i rischi per le persone.
Con il terzo mezzo del ricorso principale, si denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1223, 2087, 2697 e 2729 c.c., dell'art. 41 Cost., e degli artt. 115 e 420 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 per avere il Tribunale erroneamente affermato che le rapine subite dal T. sarebbero state conseguenza dell'omissione, da parte della Banca, di determinate misure di sicurezza, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.
La ricorrente principale deduce che:
a) sia il pretore che il Tribunale hanno ritenuto che la Banca fosse obbligata al piantonamento armato e all'allarme automatico per il rapido intervento di altri armati, evidentemente nella convinzione che il miglior rimedio per evitare le rapine fosse quello "di trasformazione la piazza del paese in un corral per un mezzogiorno di fuoco". Invero, il Tribunale aveva completamente trascurato di considerare le note linee comportamentali raccomandate e seguite dalle stesse autorità competenti, dirette a tutelare, innanzitutto, l'incolumità personale dei dipendenti, degli utenti e dei passanti e, quindi, nella specie, dello stesso ricorrente, preso in ostaggio, il quale - in caso di conflitto a fuoco - avrebbe rischiato la vita;
b) si spiega, in tal modo, il privilegio per misure di sicurezza inerenti, come appunto la porta a conserto, le strutture blindate e le casseforti a tempo, di cui era dotata anche l'agenzia di Guagnano, "tant'è che i rapinatori, nella specie, non poterono asportare granché";
c) il Tribunale - con motivazione palesemente insufficiente -, al contrario non ha neppure preso in considerazione le "competentissime" osservazioni della Soc. Graham Miller, comunicate dall'Assiaudit, secondo cui "il perito ha avuto modo di vedere numerose agenzie, diverse tra loro per ubicazione e possibilità di accesso al pubblico. Comunque lo stesso ha rilevato che non esistono sostanziali differenze nello standard dei sistemi e delle procedure di sicurezza, che sono stati giudicati di livello elevato... Secondo Ms. Van Spall l'assicurato ha dato prova di tenersi costantemente aggiornato in materia di sicurezza";
d) è errata, poi, la conclusione del Tribunale, secondo cui la presenza ed il rischio di guardie armate avrebbero scoraggiato le rapine. Si tratta di una valutazione probabilistica, non integrante, tuttavia, gli estremi di una valida presunzione (art. 2729 c.c.), poiché il nesso tra i due fatti (assenza di vigilanti armati-rapina) non è certamente configurabile in termini di necessità assoluta e neppure in termini di elevata probabilità secondo la consequenzialità normale.
La tesi del Tribunale risulta incompatibile anche con i dati statistici dell'indagine ABI 1990, secondo la quale:
1) le rapine alle dipendenze, abitualmente piantonate da vigilanti armati, si erano verificate nell'87% dei casi nel momento in cui la guardia era in servizio; il che avrebbe confermato come "i rapinatori non sono affatto dissuasi da tale presenza";
2) la percentuale di dipendenze rapinate, presso le quali era stata effettuata una vigilanza fissa (28%) non si era discostata molto da quella relativa al totale degli sportelli (bancari), in cui tale tipo di difesa era stato utilizzato (29%);
3) quest'ultimo non si era, dunque, appalesato come uno strumento con effetto deterrente elevato "in quanto le rapine... si distribuiscono uniformemente tra agenzie piantonate e agenzie prive di tale difesa".
Il Tribunale, viceversa, si è limitato all'affermazione secondo cui "la differenza di un solo punto percentuale (28% contro 29%) sarebbe sufficiente a dimostrare il nesso causale tra l'assenza di armati e la rapina"; con ciò incorrendo nella violazione dell'art. 2729 c.c., atteso che per la configurabilità di una valida presunzione è richiesta che il nesso tra il fatto noto e quello ignoto (presumendo) sia sussistente in termini di necessità assoluta o, almeno, di elevata probabilità, il che non può affermarsi allorquando tra i due fatti vi sia pressoché totale indifferenza.
L'insufficienza della motivazione - sul punto - della sentenza impugnata risulta anche dalla pretermissione dello studio n. ANIA del 19ABI allegato alla Circolare Ministeriale del 29 marzo 1982, in base al quale e gli "automatismi di chiamata" e la "sorveglianza umana" non sono considerati delle vere e proprie misure "preventive e/o deterrenti".
D'altra parte, l'ultima rapina (subita in data 3 agosto 1987 dal T.) era avvenuta in orario di chiusura dell'Ufficio, durante il quale allo stesso T. era stato espressamente vietato di trattenersi nei locali dell'azienda.
Il secondo ed il terzo motivo, per la loro evidente connessione, debbono essere esaminati congiuntamente.
Essi vanno peraltro rigettati.
Le articolate censure, dedotte con i due motivi in esame, ripropongono il quesito se anche i problemi relativi alla sicurezza del lavoratore non in senso strettamente igienico-sanitario, ma collegati - pur sempre con riguardo alla sua integrità fisio-psichica - a situazioni di ordine pubblico e di criminalità, non esistenti, almeno nelle dimensioni successivamente assunte, allorché la norma di riferimento (art. 2087 c.c., ritenuta applicabile alla fattispecie dai giudici di merito) era stata posta, siano ricomprensibili nel generico e, perciò, elastico campo di applicazione della detta norma.
Il quesito è stato già esaminato e risolto positivamente da questa Corte con la decisione n. 5048 del 6 settembre 1988, che conviene richiamare nei suoi passaggi argomentativi più significativi.
Con la sentenza n. 5048 del 1988, sull'indiscusso presupposto che l'art. 2087 c.c. sia norma volta a tutelare il prestatore d'opera da rischi generici rispetto a quelli specificamente previsti dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e, quindi, a coprire rischi comunque rientranti nel complessivo ambito di tale normativa protettiva (tant'è che lo stesso art. 2087 c.c. è stato definito come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, posta a tutela di situazioni non direttamente contemplate, ma in esso ricomprensibili, anche con responsabilità diretta del datore di lavoro, non riversabile sull'assicurazione obbligatoria), il Supremo Collegio ha affermato i seguenti principi:
A) l'art. 2087 c.c. contiene un principio di autoresponsabilità dell'imprenditore il quale, indipendentemente da specifiche disposizioni normative, è tenuto a porre in essere tutti gli accorgimenti e le misure necessarie ad evitare il verificarsi di lesioni del bene primario (del lavoratore come di ogni persona), che è la salute e l'integrità fisica.
B) L'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria (cfr. anche: Cass., n. 6282 del 1996); qualora, invece, eventi lesivi eccedenti tale copertura si verifichino, comunque, in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, "viene in rilievo, come fonte della suddetta responsabilità, la norma dell'art. 2087 c.c.". La quale, atteggiandosi come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, impone al datore di lavoro di adottare tutte le cautele necessarie (e, comunque, le misure generiche di prudenza, diligenza ed osservanza delle norme tecniche e di esperienza: così Cass., n. 7636 del 1996) a tutelare l'integrità fisica dei dipendenti, anche quando essi siano stati regolarmente assicurati.
C) L'obbligo di tutela sussiste esclusivamente nei confronti dei dipendenti, e non anche nei confronti della indistinta massa del pubblico che "in ragione dell'attività dell'impresa si trovi a frequentare i locali della stessa".
D) La diffusione dell'attività criminosa è tale da far considerare quella bancaria "nei locali cui accede il pubblico" un'attività "quanto meno occasione di rischio... per i dipendenti", nei riguardi dei quali sussiste il suddetto obbligo "non in applicazione della disciplina generale della responsabilità civile (artt. 2043 o 2050 c.c.), bensì in applicazione di quella norma, pur sempre generale ma entro un più circoscritto ambito settoriale, che è costituita dall'art. 2087 c.c.".
E) Quest'ultimo, per le sue caratteristiche di norma aperta, vale a supplire alle lacune di una normativa "che non può prevedere ogni fattore di rischio", assumendo, quindi, rispetto a questa la funzione sussidiaria di adeguamento al caso concreto.
F) L'ordinamento è in grado di sopperire alle inevitabili lacune con la predisposizione di clausole generali, in cui l'interprete può cogliere nuove esigenze meritevoli di tutela, attribuendo loro, "ove appaia consentito alla stregua dell'ordinamento, dal suo insieme e in primo luogo sulla base dei principi costituzionali", veste e dignità di posizioni soggettive tutelate.
G) Una clausola generale, che si presta a ricevere nuovi contenuti, è appunto quella contenuta nell'art. 2087, che trova piena e concreta attuazione in relazione al diritto - costituzionalmente garantito - alla salute e all'integrità fisica, ormai acquisito, per via di interpretazione giurisprudenziale, in molteplici applicazioni.
H) Il valore primario assegnato al diritto alla salute dall'art. 32 Cost. comporta che la sua tutela debba spiegarsi non solo in ambito pubblicistico, ma anche nei rapporti fra privati, ove la salute rileva come posizione soggettiva autonoma, e che una tutela privilegiata spetta ai lavoratori, nei cui confronti essa si svolge tanto sotto il profilo sanitario, quanto sotto quello economico, con l'imposizione - in particolare sotto quest'ultimo profilo - "all'imprenditore di un rigoroso dovere di garantire la sicurezza dei lavoratori (art. 2087 c.c.), che si pone come condizione per il legittimo esplicarsi dell'iniziativa economica privata (art. 41, secondo comma, Cost.)". Sicché la tutela della salute del lavoratore, nell'ambito del rapporto di lavoro, si realizza, tra l'altro, riversando entro certi limiti sull'imprenditore, il rischio (della malattia e, più in generale) dell'integrità fisica del dipendente.
I) La presenza, nell'ordinamento, di un tale diritto di così ampio raggio consente di ritenere che una sua lesione in ambiente o in costanza di lavoro, pur se non collegata direttamente all'una o all'altro, "in quanto inferta da terzi estranei", possa rientrare nell'ampia previsione dell'art. 2087 c.c., che non appresta una tutela complementare rispetto alla complessa normativa di prevenzione antinfortunistica e igienico-sanitaria, che, però, non prevede un caso "come quello in esame". Dal che si deduce che l'ordinamento non può lasciare esclusivamente a carico del lavoratore un danno alla sua salute, occasionato proprio dall'attività lavorativa, "senza che né la collettività attraverso il sistema antinfortunistico, né il datore di lavoro contribuiscano a risarcirlo".
L) L'art. 2087 c.c. consente, perciò, "senza strappi ai principi", di addossare quel rischio insieme ai vari altri che l'esercizio di un'impresa in sé comporta.
Conseguentemente, l'imprenditore ha il dovere di valutare se l'attività della sua azienda presenta rischi extralavorativi di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione. Obbligo, il contenuto del quale è individuabile "nella realtà alla stregua delle tecniche di sicurezza comunemente adottate".
M) Il contenuto degli obblighi a tutela dell'integrità fisica dei dipendenti di un istituto bancario deve essere individuato nella predisposizione di misure di sicurezza idonee a salvaguardarli da possibili danni.
Le suesposte conclusioni, cui è pervenuta la richiamata decisione n. 5048 del 1988, e alle quali questo Collegio presta convinta adesione, sono state oggetto di ampio dibattito. L'argomento contrario, apparentemente insuperabile, scaturito da tale dibattito è che, se è doveroso che l'imprenditore risponda "personalmente" dei rischi alla salute del lavoratore da lui stesso creati (e non eliminati per imprudenza, negligenza, imperizia), in caso di rapina l'istituto di credito non "crea" direttamente un pericolo di danno all'integrità fisica del proprio dipendente; così che verrebbe ad esso imputato un danno, pur in assenza di nesso causale con la sua attività, nesso che sussiste invece tra l'azione del rapinatore ed il ferimento (del dipendente dell'istituto), rispetto al quale l'esercizio del credito sarebbe mera occasione.
L'obiezione, a parere di questa Corte, è agevolmente superabile, ove si consideri che l'imprenditore deve valutare i rischi che l'esercizio di un'impresa in sé comporta e che "nel momento attuale, la diffusione dell'attività criminosa è tale da far considerare quella bancaria, nei locali cui accede il pubblico, un'attività quanto meno occasione di rischio (per il pubblico e) per i dipendenti, stante la prevedibilità della irruzione di terzi con disegni criminosi nei locali aperti al pubblico" (Cass., n. 5048 del 1988).
D'altra parte, se è vero che la responsabilità del datore, come delineata dall'ampio contenuto della norma di cui all'art. 2087 c.c., non può essere dilatata fino a comprendere ogni ipotesi di danno verificatosi a carico dei dipendenti "pur se in conseguenza di eventi criminosi non addebitabili per colpa al datore di lavoro", giacché, altrimenti, sarebbe ipotizzabile, in subiecta materia, una sorta di responsabilità oggettiva "ancorata al presupposto teorico che qualsiasi rischio possa essere evitato pur se esorbitante da ogni umana previsione o prevedibilità"; è anche vero che l'art. 2087 c.c. non configura un caso di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale ovvero suggerito dalle conoscenze sperimentali e tecniche del momento (Cass., n. 3740 del 1995).
Le osservazioni finora assunte hanno trovato l'autorevole conforto della Corte Costituzionale, la quale, partendo dall'indefettibile presupposto che l'art. 2087 c.c. abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi, ha ancora recentemente posto in rilievo come: "la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato _ La tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni (di vita, di ambiente e) di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale". Conseguentemente "non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32, 2, 41 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavorati. L'art. 2087 del codice civile stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" (Corte Cost., sent. n. 399 del 1996).
Coerentemente, in adempimento del principio della massima sicurezza "tecnologicamente possibile" vigente nel nostro ordinamento ai sensi del più volte citato art. 2087 c.c. (peraltro, di recente riaffermato dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626), secondo cui la sicurezza non può essere subordinata a criteri di fattibilità economica o produttiva (Cass., Sez. pen., 9 gennaio 1984, in causa Gorla), lo stesso datore di lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire il fine della protezione della salute e dell'integrità fisica dei propri dipendenti in modo conforme al principio direttivo costituzionale dell'art. 32 Cost.
Gli obblighi che l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore in tema di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma si estendono, nella fase dinamica dell'espletamento del lavoro, anche "all'ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall'imprenditore devono prevenire sia i rischi insiti in quell'ambiente, sia i rischi derivanti dall'azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova" (Cass., n. 9401 del 1995).
In questi termini, va quindi condiviso il canone interpretativo suggerito dalla sentenza n. 5048 del 1988, laddove si è affermato che "l'art. 2087 c.c., per le sue caratteristiche di norma aperta, vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto", senza che ciò costituisca "strappi ai principi", poiché il dovere di protezione (dei lavoratori) che grava sull'imprenditore - collegato, del resto, al rischio di impresa - comporta che debba essere lo stesso imprenditore a valutare se la attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi "di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione", giusta il principio per cui ciascun datore, in riferimento alla particolarità del lavoro, da una parte, ed all'esperienza e alla tecnica, dall'altra, deve nella rappresentazione dell'evento (prevedibilità) prospettare a se stesso l'adozione delle misure (e, dunque, di tutte le misure) più consone e più aggiornate, al fine di scongiurare la sua realizzazione (prevedibilità).
Ne consegue che, proprio alla stregua dei dati di esperienza, il suddetto obbligo "avrà un contenuto non teorizzabile a priori", ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di sicurezza comunemente adottate (Cass., n. 5048 del 1988).
Trattasi, evidentemente, di un'obbligazione ex lege accessoria e collaterale rispetto a quelle principali proprie del rapporto di lavoro, involgente, quindi, la diligenza nell'adempimento ex art. 1176 c.c. (cfr. Cass., n. 7768 del 1995), "eventualmente correlata alla natura dell'attività esercitata, e comunque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di comportamento delle parti in ogni rapporto obbligatorio costituiti, ex artt. 1175 e 1375 c.c., dalla correttezza e buona fede, ormai ampiamente valorizzati dalla giurisprudenza" (Cass., n. 5048 del 1988; n. 7768 del 1995).
Con specifico riferimento all'attività bancaria, il contenuto degli obblighi a tutela dell'integrità fisica dei dipendenti deve, dunque, essere individuato nella predisposizione di misure e mezzi di sicurezza idonee a salvaguardare detti prestatori da possibili danni.
Rischi e mezzi di tutela, tenuti del resto, ben presenti dalle parti (sociali) contrattuali, alla cui attenzione - com'è desumibile anche nel caso concreto - già da tempo è dedicata, dai contratti collettivi di categoria (che generalmente rimettono ai contratti integrativi aziendali la concreta attuazione) la trattazione della relativa problematica; con ciò potendosi ritenere ormai acquisito, anche nel convincimento delle parti sindacali, la sussistenza di quel rilevante rischio per i dipendenti da azioni criminose di terzi, che giustifica, in definitiva, l'applicazione dell'art. 2087 c.c.. Onde - deve ritenersi che il datore di lavoro, il quale, in una simile situazione di rischio prevedibile ed accettabile alla stregua dei comuni criteri di diligenza "o addirittura disciplinata in sede collettiva nazionale o aziendale", non abbia predisposto gli adeguati mezzi di tutela, debba rispondere ex art. 2087 c.c. dell'evento lesivo nei confronti del dipendente (così: Cass., n. 5048 del 1988). Dovendo, infatti, il datore di lavoro ispirare la sua doverosa condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza, atteso che l'art. 2087 c.c. stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche (Cass. pen., 29 aprile 1994, Giust. pen. ,1995, II, 505).
Allorquando ricorra un tale inadempimento del datore, la conseguenza della malattia o dell'infortunio del dipendente, che abbiano origine e trovino causa in detto inadempimento, dunque, debbono essere sopportate dallo stesso datore, per essere stato egli, appunto, inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087, giacché l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento illecito della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass., n. 3559 del 1984; n. 4723 del 1994; n. 6601 del 1995; n. 3751 del 1996).
Ciò posto, si osserva che il giudice d'appello ha applicato esattamente tale insegnamento, poiché, con logica e congrua motivazione, collegata all'esercizio del potere istituzionale, che devolve esclusivamente al giudice di merito l'interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune, data la loro natura contrattuale (Cass., n. 5930 del 1996), - come già precisato in narrativa - ha accertato che l'art. 10 dell'accordo integrativo aziendale 1° luglio 1988, alla lettera a) aveva imposto alla Banca, attuale ricorrente, l'obbligo di "adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi nei confronti delle persone e del patrimonio aziendale, con particolare riferimento a tutte le possibilità di accesso all'interno delle strutture della Banca. Ogni dipendenza sarà fornita da doppia porta con metal detector o di analoga misura di sicurezza, in modo tale da garantire comunque gli standard minimi di sicurezza esistenti nella piazza"; pervenendo alla (corretta) conclusione che la previsione contrattuale non aveva esaurito l'obbligo della Banca di tutelare i propri dipendenti, esonerandola - in tal modo - dalla responsabilità civile "per il solo fatto di aver adottato l'unica misura di sicurezza tipizzata dall'accordo collettivo".
Invero, il Tribunale, chiamato a verificare se la Banca avesse adempiuto o no la obbligazione contrattuale ad essa facente carico ex art. 2087 c.c., ha dato risposta negativa, osservando che la clausola contrattuale su richiamata andava intesa "solo quale misura minima comunque inderogabile", con ciò però escludendo che l'accordo integrativo aziendale dal 1° luglio 1988 non avesse posto a carico della Banca (come, al contrario, sostenuto con le censure in esame) "l'obbligo di adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi, e cioè un impegno addirittura superiore all'onere dell'ordinaria diligenza che, ai sensi degli artt. 2043 e 1176 c.c., segna il limite della responsabilità per danni". Impegno che lo stesso Tribunale - con incensurabile, perché correttamente motivato, accertamento - (condividendo, sul punto, la determinazione del pretore) ha individuato, oltre che nella porta a consenso con metal detector, nel "piantonamento diurno con guardia giurata o sorvegliante addetto ad una guardiola blindata, sistema d'allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine"; ossia, in quel complesso di misure di sicurezza, che, lungi dall'essere inesigibili dal datore di lavoro, rientrano in quell'ambito di prevedibilità (dell'evento) e di prevenibilità (mediante l'adozione di idonee e consone misure), ricollegabile certamente alla particolarità del lavoro (bancario). Misure che il datore, come cennato, è tenuto - alla stregua di una valutazione ex ante e del criterio dell'ordinaria diligenza - ad adottare al fine di scongiurare il verificarsi di eventi dannosi per la salute dei propri dipendenti.
Contro le affermazioni del Tribunale, la cui statuizione riposa su esatti e condivisibili principi di diritto, la ricorrente principale ha, invece, formulato censure in parte infondate e, per altra parte (laddove ha preteso di ribaltare l'accertamento di fatto in ordine al verificarsi delle rapine), inammissibili nel giudizio di legittimità.
Esse, in definitiva, in relazione al punto ora precisato, decisivo nella presente controversia e, quindi, in ordine alla responsabilità della ricorrente, non intaccano i precetti di logica e razionalità, che sorreggono la motivazione della sentenza impugnata.
Con il quarto motivo, si chiede la Cassazione della decisione gravata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1375, 2087, 2103 e 2734 c.c., dell'art. 116 c.p.c., dell'art. 39 Cost. e dell'art. 1362 c.c. e segg., con riferimento all'interpretazione dell'art. 10 del contratto aziendale, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, per avere il Tribunale affermato la responsabilità della Banca per non avere trasferito il T. prima dell'ultima rapina, nonché per insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.
Si deduce che il Tribunale "con davvero inspiegabile favore per il ricorrente" ha erroneamente ritenuto che non occorresse una domanda di trasferimento da parte del dipendente, in quanto la Banca avrebbe dovuto di sua iniziativa "andare incontro al desiderio del T.".
Il motivo è infondato.
Il giudice di appello, condividendo il rilievo contenuto nella decisione pretorile, ha valutato il mancato trasferimento dell'attuale resistente "prima dell'ultima rapina quale ulteriore comportamento colposo della Banca, che si aggiunge, nella determinazione del pregiudizio psico-fisico del dipendente, a quello consistito nella mancata adozione delle doverose misure di sicurezza nelle filiali di Lizzanello e Guagnano". Osservando, inoltre, che tale ultimo profilo di colpa era in realtà "già di per sé idoneo a giustificare l'obbligo risarcitorio". Conseguentemente, ad avviso di questa Corte, risultando ininfluente, ai fini della decisione finale, valutare anche se la Banca abbia omesso altre (doverose) misure (e/o attività), appare irrilevante la censura prospettata, giacché un suo eventuale accoglimento non potrebbe variare l'esito della decisione stessa.
Con il quinto motivo, si denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il Tribunale affermato una responsabilità della Banca laddove non aveva immediatamente trasferito il T. dopo l'ultima rapina e gli aveva assegnato mansioni dequalificanti, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.
Il quinto motivo deve ritenersi assorbito nel quarto, in quanto, avendo - in proposito - la sentenza impugnata ribadito che il relativo profilo di colpa "costituisce solo un elemento aggiuntivo a fondamento della responsabilità già sussistente per violazione dell'art. 2087 c.c., la ricorrente non prospetta nuovi ed ulteriori profili di critica a supporto della propria doglianza.
Con il sesto motivo, si assume la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., degli artt. 1, 2, 3, 4 e segg., art. 9 e segg., artt. 10 e 13 D.P.R. n. 1124 del 1965 e degli artt. 101, 112, 414 e 420 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, per avere il Tribunale erroneamente negato il diritto del T. ad ottenere la prestazione assicurativa dell'INAIL ed il conseguente esonero di responsabilità della Banca.
Si deduce che era pacifico il fatto (non contestato) che il lavoratore fosse assicurato presso l'INAIL, negato, viceversa, dal giudice d'appello, e che è erronea l'opinione secondo cui il funzionario di Banca sia per definizione escluso dall'assicurazione presso detto Istituto.
La censura è infondata.
Il Tribunale ha correttamente statuito, basandosi su una "missiva in data 2 aprile 1993", che l'INAIL non poteva (né doveva) erogare alcuna prestazione in favore del T., dal momento che costui "non è persona rientrante nella tutela assicurativa di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965".
L'opinione, così espressa, è del resto conforme all'autorevole affermazione della Corte Costituzionale che, chiamata a decidere della legittimità costituzionale dell'art. 4 del T.U. della legge sull'assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con D.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non prevede l'obbligo di assicurazione per una particolare categoria di prestatori (funzionari di banca), ha - con decisione n. 429 del 3 ottobre 1990 - dichiarato inammissibile la relativa questione sull'assorbente rilievo che la conseguente "forma autonoma di un'assicurazione dell'infortunio" compete esclusivamente al potere discrezionale del legislatore, non comportando, dunque, l'esclusione del caso de quo violazione di alcun precetto costituzionale.
La contraria opinione della ricorrente cozza, viceversa, contro l'insindacabile accertamento del Tribunale e deve, perciò, essere disattesa.
Con il settimo motivo, si chiede l'annullamento della pronunzia impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 32 Cost. e degli artt. 1223, 1226 e 2697 c.c., nonché dell'art. 414, n. 4, c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 laddove è stato erroneamente riformato il capo della statuizione del pretore, relativo alla quantificazione del danno biologico, liquidato (in L. 54 milioni) con il criterio a punti, anziché con il criterio del triplo della pensione sociale. Si denuncia, altresì, insufficiente motivazione sul punto.
La doglianza è infondata.
Il Tribunale, nella quantificazione del danno biologico, richiesto dal T., si è correttamente uniformato al prevalente insegnamento di questa Corte, secondo cui il risarcimento del danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto, costantemente presente in ogni fatto illecito che rechi danno alla persona, deve essere liquidato anche in difetto di criteri obiettivi per l'esatta quantificazione del pregiudizio, stante il potere-dovere del giudice di ricorrere ad una valutazione equitativa.
Sicché non può essere utilizzato il criterio indicato dall'art. 4 del D.L. 23 dicembre 1996, n. 857 (convertito con legge 26 febbraio 1977, n. 39), che si riferisce al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale (ex plurimis: Cass., n. 477 del 1996), ben potendosi utilizzare - come, peraltro, ha fatto il Tribunale - il criterio della liquidazione c.d. per punti.
Con l'ottavo motivo, la Banca ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 32 Cost., artt. 1223, 1226 e 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere il giudice d'appello erroneamente duplicato il risarcimento del danno medesimo, considerandolo, una volta, come patrimoniale, ed, una volta, come biologico; nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.
La ricorrente sostiene che la doppia detrazione della pensione non era affatto frutto di un errore, poiché il pretore, operando correttamente su somme di denaro al netto delle imposte, aveva tenuto conto di quella parte di reddito (pensione di invalidità) che il T. percepiva proprio per le stesse ragioni (inidoneità), per le quali aveva perduto il reddito da lavoro. Di modo che non può parlarsi di doppia detrazione, in quanto la pensione, già goduta in costanza di rapporto, rilevava sia al fine della determinazione dell'effettivo reddito da lavoro, sia come incremento di reddito compensativo, secondo il principio della compensatio lucri cum damno.
La ricorrente deduce, infine, che deve essere evitata un'ingiusta duplicazione del danno, mediante il risarcimento del danno biologico e risarcimento di quello patrimoniale.
Il motivo va rigettato.
Va premesso che - come si legge nella sentenza impugnata - il Tribunale, esaminando la specifica doglianza del lavoratore, il quale aveva lamentato - a proposito della quantificazione del danno patrimoniale - l'erroneità della detrazione, dal reddito percepito nell'anno precedente il licenziamento, dell'assegno di invalidità "poiché gli stipendi a lui versati dalla banca erano già decurtati dell'importo di tale assegno", ha considerato - con apprezzamento incensurabile - che "negli statini mensili degli stipendi, esibiti dal T., risulta effettuata una specifica trattenuta pensionati dall'epoca successiva all'emissione (luglio 1989) del certificato di pensione INPS pure esibito. Il calcolo del risarcimento dovuto per il danno patrimoniale subito andrà _ nuovamente effettuato secondo i criteri adottati dal pretore _ ma senza operare la detrazione relativa all'assegno di invalidità".
Ha, quindi, adottato un'esatta statuizione, poiché (il Tribunale) ha mostrato di avere chiara la distinzione tra danno patrimoniale (riferibile al pregiudizio conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale) e danno biologico (connesso ad una menomazione psico-fisica del soggetto), che debbono essere (entrambi) risarciti, senza che ciò comporti - come osservato dalla giurisprudenza di legittimità - una duplicazione nella liquidazione di un elemento del danno (cfr. Cass., n. 12911 del 1992), atteso che il danno biologico e quello patrimoniale attengono a sfere distinte di riferimento (Cass., n. 3565 del 1996; n. 3727 del 1996).
Con il nono motivo, la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 25 Cost. e degli artt. 1218, 2059, 2087 e 2697 c.c., nonché degli artt. 42, 43 e 590 c.p., dell'art. 414, n. 4, c.p.c. art.- 437 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 ed omessa e/o insufficiente motivazione sul punto.
Censura la sentenza impugnata per avere erroneamente condannato essa attuale ricorrente principale al risarcimento del danno morale, sostenendo che:
a) il Tribunale ha accolto una causa petendi (reato di lesioni colpose) mai indicata in primo grado e "saltata fuori tardivamente solo in appello";
b) il Tribunale ha confuso i requisiti della responsabilità contrattuale del debitore (artt. 1218 e 2087 c.c.), dai quali esula l'onere della prova della colpa dell'inadempimento, ed i requisiti della responsabilità penale, per la quale è indispensabile la prova dell'elemento soggettivo (artt. 42 e 43 c.p.); c) l'inesistenza, nella specie, di una predeterminata norma prevenzionistica, atteso che l'accertamento della responsabilità civile che era fondata solo su un'inammissibile forzatura del principio di cui all'art. 2087 c.c., esclude in radice la configurabilità di un reato.
Anche l'ultimo motivo è infondato.
Si deve innanzitutto escludere che il giudice d'appello si sia pronunziato in difetto di una causa petendi, giacché il T. - come si desume dalla sentenza impugnata e dagli atti di causa - aveva chiesto l'affermazione della responsabilità della Banca P. P. s.r.l. per tutti i danni patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell'obbligo di sicurezza previsto dall'art. 2087 c.c.
E su tale indiscutibile presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la stessa Banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore, osservando (correttamente e coerentemente con principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza, puntualmente richiamati nella decisione ora gravata), che non può escludersi "il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza" (v. Cass., Sez. IV 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. Pen., Sez. IV 13 gennaio 1989, Marocco).
E da siffatta premessa, lo stesso giudice d'appello è pervenuto all'esatta conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d'ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.).
In definitiva, il ricorso principale deve essere rigettato.
Va, rigettato anche il ricorso incidentale, con il cui unico motivo M. T. denuncia, a sua volta, violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2110 c.c., e art. 3 legge n. 604 del 1966, nonché contraddittorietà ed insufficienza di motivazione su un punto essenziale della controversia.
Il ricorrente incidentale, a sostegno della censura, osserva che il Tribunale, dopo avere correttamente affermato che, anche nella disciplina del rapporto di lavoro, trova applicazione il principio generale che l'autore di un comportamento contra legem non può invocare a suo vantaggio l'evento dannoso cagionato (cosicché non può essere intimato il licenziamento per superamento del periodo di comporto quando responsabile della malattia del prestatore sia il datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c.), ha poi contraddittoriamente ritenuto legittimo il recesso disposto dalla Banca, assumendo che, se la malattia del dipendente contratta per colpa del datore non può determinare un recesso per superamento del periodo di comporto, tale periodo, però, continua ad avere rilievo al diverso scopo di individuare il momento in cui il licenziamento per causa diversa (nella fattispecie: per inidoneità al lavoro) può essere efficacemente intimato.
Il vizio e la contraddittorietà della motivazione appaiono evidenti ove si consideri che l'inidoneità al lavoro del T. era stata determinata proprio dal fatto colposo della Banca, con la conseguente irrilevanza del decorso del periodo di comporto e, in ogni caso o gradatamente, con la conseguente esigenza di stabilire, prescindendo dal riferimento, che può avvenire solo in via equitativa, al periodo complessivo di assenza dal lavoro negli ultimi due anni, se effettivamente si fosse verificata, per il decorso di quel periodo, l'inidoneità al lavoro del T..
Sotto quest'altro profilo, quanto meno, doveva essere verificato, sulla base di una motivazione congrua e coerente, il carattere irreversibile in tempi ragionevoli dello stato di invalidità psichica del T..
Occorre, innanzi tutto, osservare che il Tribunale, partendo dal presupposto che il lavoratore era stato assente per malattia per oltre 22 mesi negli ultimi tre anni prima del recesso datoriale, alla data del 28 maggio 1990 poteva essere "efficacemente" licenziato, ha affermato che, sebbene la malattia contratta dal prestatore per colpa del datore non possa determinare un licenziamento per superamento del periodo di comporto, tuttavia "tale periodo continua ad avere rilievo al diverso scopo di individuare il momento in cui il licenziamento per causa diversa (nella fattispecie in esame: per inidoneità al lavoro) può essere efficacemente intimato".Si legge, poi, nella sentenza impugnata che il giudice d'appello - con riferimento alla consulenza medico-legale d'ufficio, volta all'accertamento se il T., alla data del licenziamento, fosse idoneo o no allo svolgimento delle mansioni di funzionario di banca secondo le declaratorie contrattuali - ha concluso nei seguenti termini: " il T. versava in condizioni di salute fisica e mentale tali da richiedere assoluto riposo; appare legittimo dedurne che in tali condizioni il ricorrente non aveva la capacità e possibilità di svolgere alcuna attività lavorativa e, di conseguenza, neppure quella di funzionario di banca".
La statuizione del Tribunale appare corretta e va mantenuta ferma, posto che essa è conforme ai principi di diritto costantemente affermati da questa Corte, secondo cui la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, a causa di malattia, anche se non è stato superato il periodo di comporto, giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro (v. da ultimo: Cass., n. 3040 del 1996), costituendo esso un caso di giustificato motivo oggettivo di licenziamento (v. Cass., n. 5830 del 1987 ed altre; Cass., n. 7196 del 1991 ed altre). Sicché, tenuto conto - come rilevato dal Tribunale - che, nell'ambito dell'organizzazione della Banca, attuale ricorrente, non "possono individuarsi mansioni" compatibili - in relazione alla qualifica di funzionario - con lo stato psico-fisico del T., la cui richiesta di reintegra "non può, di conseguenza, essere accolta", allo stesso T. era consentita soltanto la tutela risarcitoria, peraltro riconosciuta dal giudice di merito.Le spese di questo giudizio di legittimità vanno totalmente compensate tra le parti, attese la reciprocità della soccombenza e la complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma il 13 maggio 1997.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 20 APRILE 1998