Svolgimento del processo
G.L. impugnò il licenziamento intimatole da G. F., titolare di un'agenzia in Portogruaro della A. s.p.a. Le parti addivennero a un accordo dinanzi alla competente commissione provinciale di conciliazione, in forza del quale il datore di lavoro corrispose la somma di lire 63.000.000 a titolo di risarcimento del danno per licenziamento illegittimo, detraendo, all'atto della corresponsione, la somma di lire 13.025.092 a titolo di Irpef sul tfr.
La contribuente richiese il rimborso di detta somma e, formatosi il silenzio-rifiuto, propose impugnazione dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Venezia, sostenendo che l'erogazione non aveva avuto natura retributiva, ma risarcitoria, nell'ambito di una transazione novativa avente per oggetto la mera rinuncia alla lite.
La domanda fu respinta con sentenza poi confermata in appello. In particolare, la commissione tributaria regionale del Veneto, con la sentenza n. 35/30/2006, osservò che la somma concordata tra le parti aveva racchiuso gli elementi del danno emergente e del lucro cessante e che la mancata indicazione delle rispettive "quote" aveva concretato un tentativo illegittimo di sottrarsi alla tassazione, essendo soggetti a imposizione, ai sensi dell'art. 6 del Tuir, i risarcimenti da lucro cessante.
Aggiunse che nessuna norma sanciva l'intassabilità di erogazioni disposte dal datore di lavoro a seguito di transazione novativa, e che, in base all'art. 48 del Tuir, qualunque somma corrisposta in dipendenza del lavoro prestato doveva essere fatta rientrare nel concetto di (reddito da) lavoro dipendente.
Ricorre per cassazione la contribuente con tre motivi illustrati anche da memoria. L'agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. - Il primo mezzo deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell'art. 1965 c.c., e dell'art. 6 del Tuir. In base al quesito di diritto, che lo conclude, il motivo testualmente chiede che la Corte "stabilisca che, in caso di transazione con riconoscimento della spettanza di un determinato risarcimento e contestuale rinuncia di altri risarcimenti, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, sia illegittimo qualificare il risarcimento percepito non in base al suo proprio titolo ma in base al titolo dei risarcimenti richiesti ma ai quali concludendo la transazione si è espressamente rinunciato".
Osserva il collegio che il quesito non è formulato secondo i canoni richiesti dall'art. 336 bis c.p.c., rimanendo incomprensibile il significato fatto palese dalla frase che lo compendia, per la carente connessione delle espressioni utilizzate e per la genericità della terminologia ("un determinato risarcimento" rapportato alla rinuncia di "altri risarcimenti").
Il quesito d'altronde non contiene indicazioni in ordine al nesso con la fattispecie concreta, così da potersi superare, suo tramite, la fumosità delle espressioni dette. Mentre, secondo un consolidato orientamento, che il collegio ribadisce, ricorre l'inanimissibilità del motivo le volte in cui la formulazione del quesito sia generica per la mancanza di riferimenti alla fattispecie e ai suoi elementi di fatto, di modo da risultare inidonea ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione (v. per tutte sez. un. 12339/2010).
2. - Il secondo mezzo denunzia la violazione e la falsa applicazione dei principi in tema di reddito da lavoro dipendente, e in particolare del combinato disposto degli artt. 6, 46 e 48 del Tuir (nel testo vigente ratione temporis). Contesta invero l'esistenza di una presunzione di appartenenza alla categoria (e al regime) del reddito da lavoro dipendente di tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro, alla stregua di una tendenziale onnicomprensivita della sfera reddituale quanto alle erogazioni percepite. Sicchè assume che sono tassabili le somme percepite per un titolo che derivi in maniera diretta e immediata dal rapporto di lavoro, ma non gli importi percepiti a titolo diverso - quale il ristoro di un danno "alla professionalità" ovvero da "lesione dell'immagine" o anche da "offesa di un familiare" - che prendano soltanto occasione dalla pregressa esistenza del rapporto.
Il motivo appare inammissibile perchè presidiato da quesito generico e inconferente. Il quale invero è formulato con richiesta di stabilire "che, in tema di imposte dirette, il regime del reddito di lavoro dipendente, come disegnato dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 46 e 48, (..), non solo non può dirsi caratterizzato da una presunzione di appartenenza a tale categoria di tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore, ma risulta ispirato ad una solo tendenziale onnicomprensivita nella sfera reddituale delle erogazioni da questo percepite: quindi sono tassabili le somme percepite per un titolo che derivi in maniera diretta ed immediata dal rapporto di lavoro, mentre rimangono esenti da tassazione gli importi percepiti per un altro titolo, che prenda soltanto occasione dalla pregressa esistenza di un rapporto di lavoro, a ristoro di un danno diverso (come il danno alla professionalità, la lesione dell'immagine professionale o anche l'offesa ad un familiare)".
Fermi i riferimenti ai testi normativi rilevanti prò tempore, vai bene premettere che può considerarsi consolidato, nella giurisprudenza della Corte, il principio secondo cui, in tema di imposte sui redditi, e in ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro dipendente, le somme percepite dal lavoratore a titolo di transazione della controversia avente a oggetto il risarcimento del danno per illegittimo licenziamento sono imponibili ai sensi dell'art. 6, comma 2, e art. 48 del Tuir, e sono soggette a tassazione separata ai sensi dell'art. 16, comma 1, lett. i), del medesimo, indipendentemente dalle modifiche apportate alla lett. a) dello stesso art. 16, dal D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 32, convertito in L. 22 marzo 1995, n. 85 (per tutte Cass. n. 19199/2006; n. 10185/2003).
Dalla lettura coordinata con l'art. 46 del Tuir si ricava che per potersi negare l'assoggettabilità a Irpef di una erogazione economica effettuata a favore del lavoratore da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro. Se ciò non viene accertato, è necessario che tale erogazione, in base all'interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione o all'interruzione del rapporto di lavoro. E il relativo onere probatorio grava sul contribuente.
Ora, nella specie, la commissione regionale ha accertato che la transazione venne tra le parti conclusa "per rinuncia di una parte scilicet, l'odierna ricorrente a ulteriori pretese comunque dedotta o deducibile in relazione all'intercorso rapporto di lavoro ed alla sua risoluzione" (così nel testo della sentenza). Ha quindi fornito la interpretazione che la somma percepita sia stata a significare "una mancata retribuzione di ingenti ore di lavoro straordinario svolto e non pagato, nei tempi dovuti, per ferie non godute al momento opportuno e mai retribuite come stabilito dalla normativa contrattuale, nonchè per erronea collocazione contributiva e previdenziale", dichiarando di desumere la funzione giuridica del pagamento dal contenuto del "verbale stilato di comune accordo fra le parti".
I profili di fatto, da cui il giudice di merito ha tratto il suo convincimento, non sono controversi, essendo esattamente sintonici con il testo del verbale così come riportato in seno al ricorso per cassazione.
Consegue che nessuna rilevanza possiedono i riferimenti qualificanti del quesito di diritto, evocativi di funzioni risarcitorie diverse, quali quelle afferenti a danni alla professionalità, all'immagine o, addirittura, ai riflessi di offese familiari, in quanto non a ristoro di siffatte tipologie di danno si palesa raggiunto, in base all'accertamento di merito, l'accordo transattivo che rileva. Da qui la non pertinenza dei riferimenti di cui al quesito di diritto, da cui deriva l'inammissibilità del corrispondente motivo.
3. - Il terzo mezzo - che denuncia insufficienza e contraddittorietà della motivazione - manca del c.d. quesito di fatto: id est, della sintesi conclusiva diretta a evidenziare il fatto controverso decisivo su cui la motivazione sarebbe da ritenere insufficiente e/o omessa (potendo in ogni caso osservarsi che nessuna contraddizione in verità si rileva tra le proposizioni appena evocate, la motivazione apparendo infine congrua in rapporto agli esposti principi che governano la fattispecie).
4. In conclusione, quindi, il ricorso non appare suscettibile di superare il filtro posto dai quesiti di diritto, sì da doversi dichiarare inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.500,00 oltre le spese prenotate a debito.