Svolgimento del processo
Con sentenza del 28 dicembre 2000 la Corte d'appello di Catania, per quanto ancora interessa in questa sede, confermava la sentenza resa il 10 aprile dello stesso anno dal giudice del lavoro del locale Tribunale, con cui era stata accolta la domanda proposta dal sig. C. C., informatore medico scientifico dipendente della P.I.C., che era stato posto in mobilità ed aveva goduto della relativa indennità per un periodo di 36 mesi, per ottenerne la fruizione per ulteriori dodici mesi, osservando che il diritto alla indennità di mobilità per 48 mesi discendeva dall'art. 7, secondo comma, della legge n. 223 del 1991, in cui viene prevista tale maggiore durata nelle aree "di cui al T.U. approvato con D.P.R. n. 218 del 1978"; affermava la Corte che detta disposizione si applica qualora il lavoratore operi nelle aree medesime, anche se l'azienda sia ubicata al di fuori, perché, non fornendo la lettera della legge nessun elemento a favore dell'una o dell'altra tesi, si deve avere riguardo alla ratio della disposizione, con cui si intende favorire il reinserimento del lavoratore che operi in area svantaggiata. Avverso detta sentenza l'I. propone ricorso affidato ad un unico motivo.
L'assicurato resiste con controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione
L'I. censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 7, secondo comma, della legge n. 223 del 1991 e del D.P.R. n. 218 del 1978, perché, sostiene l'Istituto, il legislatore del 1991, nel porsi l'obiettivo di razionalizzare i trattamenti di disoccupazione, avrebbe inteso configurare l'indennità di mobilità soprattutto come uno strumento a sostegno delle imprese in crisi, agevolandone i processi di ristrutturazione. I requisiti che fungono da chiave di accesso del sistema selettivo sono collegati alla natura dell'impresa, riservandosi la prestazione ai lavoratori occupati presso imprese ritenute meritevoli di particolare tutela e attenzione in considerazione della loro operatività in determinati settori e della loro consistenza numerica. Pertanto si dovrebbe avere riguardo, per accertare il diritto al prolungamento dell'indennità di mobilità, alla ubicazione dell'unità produttiva e non già al luogo ove il lavoratore vive e lavora. Il ricorso merita accoglimento.
Invero il secondo comma dell'art. 7 della legge n. 223 del 1991 che viene in applicazione nella specie dispone il prolungamento della indennità di mobilità "nelle aree di cui al T.U. approvato con D.P.R. 6 marzo 1978 n. 218".
Essendo pacifico in fatto che l'impresa da cui il C. dipendeva non è ubicata nelle aree predette, ma che il lavoratore ha colà prestato la sua opera e vi risiede (Catania), va rilevato che il mero tenore letterale della disposizione non è sufficiente a risolvere la questione proposta, perché, per la sua genericità si presta astrattamente a diverse interpretazioni, ed infatti la collocazione nelle aree suddette potrebbe riferirsi alla residenza del lavoratore posto in mobilità, ovvero alla ubicazione dell'impresa che ha proceduto all'espulsione, oppure al luogo ove veniva resa la prestazione lavorativa; occorre quindi collocare la norma nell'ambito del sistema, per cercare la soluzione mediante l'analisi dei lineamenti fondamentali dell'indennità di mobilità, introdotta per la prima volta nell'ordinamento ad opera della legge 223 del 1991, nonché mediante la disamina della legislazione successiva, che sembra offrire elementi di chiarificazione.
1) È noto che detta legge, innovando la disciplina preesistente, ha configurato la cassa integrazione straordinaria come rimedio temporaneo (art. 4 comma 9), da ciò la necessità di sopperire, attraverso l'indennità di mobilità, ai bisogni del personale definitivamente espulso dall'impresa a seguito della impossibilità di reimpiego che si determina nel corso del trattamento straordinario di integrazione salariale (art. 4), ovvero a seguito del licenziamento collettivo (art. 24).
L'indennità di mobilità, che pure è regolata dalla normativa sulla disoccupazione (cfr. art. 7, comma 12, della legge n. 223 del 1991), com'è noto, non è prestazione generalizzata spettante a tutti coloro che si trovino in stato di disoccupazione, ma è riservata appunto esclusivamente ai lavoratori espulsi, a seguito di provvedimenti di natura collettiva (fatta quindi eccezione per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo), dalle aziende indicate "tassativamente" dalla legge del 1991: si tratta delle aziende che rientrano nel campo di applicazione della disciplina dell'intervento straordinario di integrazione salariale e quindi principalmente delle aziende industriali con più di quindici dipendenti (art. 1 della legge n. 223 del 1991), alle quali nel corso del tempo sono state aggiunte altre tipologie di imprese come (l'elenco non è esaustivo) le imprese commerciali con più di 50 dipendenti e le imprese di trasporto parimenti con più di 50 dipendenti (art. 7, comma 7, della legge 19 luglio 1993 n. 236 di conversione del D.L. 20 maggio 1993 n. 148, art. 5, comma 3, della legge 19 luglio 1994 n. 451, di conversione del D.L. 16 maggio 1994 n. 299). Vi è pertanto una connessione inderogabile tra il tipo di azienda da cui il lavoratore è stato espulso ed il diritto e la misura della indennità di mobilità, mentre nessun riferimento si rinviene né nella legge del 1991, né in altre disposizioni successive, al luogo di residenza del lavoratore.
Proprio a causa della parzialità dell'intervento, volto a tutelare solo alcune categorie di coloro che perdono l'impiego, è stato osservato da taluni commentatori che il trattamento di mobilità appare destinato ad operare più come ammortizzatore delle tensioni sociali che derivano dai processi di espulsione di manodopera, ed in fondo come ausilio dell'impresa in crisi, e meno come garanzia economica di tutela dal bisogno del lavoratore disoccupato nelle more della ricerca di una nuova occupazione.
2) In questa logica è coerente individuare i destinatati della maggiore durata della indennità di mobilità di cui al secondo comma della legge n. 223 del 1991, in coloro che lavoravano presso una impresa ubicata nei tenitori meridionali, perché costoro, a seguito della messa in mobilità, avranno maggiore difficoltà nel reperimento di un altro posto di lavoro nel medesimo territorio che è svantaggiato dal punto di vista occupazionale. Viceversa un lavoratore, che, pur essendo residente nei tenitori meridionali, era occupato presso un'impresa ubicata in territorio non svantaggiato, potrà avere maggiori possibilità di reimpiego nel territorio medesimo, onde non ha diritto al prolungamento del periodo di fruizione dell'indennità. Va precisato, coerentemente, che il diritto al prolungamento dell'indennità sussiste anche nel caso di lavoratore addetto ad una unità produttiva ubicata nelle aree meridionali (di azienda collocata al di fuori): in tal caso infatti ricorre la medesima ratio di evitare le tensioni sociali che si produrrebbero nel territorio "svantaggiato" in conseguenza della espulsione di una pluralità di lavoratori.
Viceversa, nessun provvedimento di espulsione di manodopera di natura collettiva nei tenitori svantaggiati dal punto di vista occupazionale può logicamente verificarsi nel caso in cui l'impresa non abbia colà alcuna unità produttiva: in tal caso, infatti, mancando l'unità produttiva, non è neppure ipotizzabile un provvedimento di espulsione di tal genere, pertanto il lavoratore che opera sì nei territori meridionali, ma al di fuori di ogni struttura produttiva aziendale, essendo dipendente di impresa ubicata nel nord d'Italia, deve ricevere il trattamento di mobilità nella durata ordinaria, in forza dello stretto collegamento che la legge del 1991 configura tra diritto e misura della prestazione ed area in cui si è verificata la crisi aziendale (che ha determinato o il collocamento in mobilità a seguito della Cigs (art. 4) ovvero il licenziamento collettivo (art. 24).
La maggiore durata della indennità di mobilità spetta quindi ai lavoratori dipendenti da unità produttiva investita dal provvedimento di espulsione di natura collettiva che sia ubicata nelle aree di cui al D.P.R. n. 218 del 1978.
3) Se ne trae conferma considerando la struttura territoriale in cui si articola l'istituto della collocazione in mobilità. Invero il lavoratore può fruire della indennità di mobilità solo se sia iscritto nelle relative liste, che sono quelle della regione ove si trova l'azienda, ovvero l'unità produttiva che ha proceduto alla collocazione in mobilità.
Dispone infatti l'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 che, contestualmente al recesso, l'elenco dei lavoratori collocati in mobilità deve essere comunicato all'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione "competente" e la compilazione delle liste di mobilità spetta all'ufficio regionale del lavoro. Le liste di mobilità sono quindi compilate su base regionale e quindi dalla regione presso la quale si trova l'impresa, ovvero l'unità produttiva che colloca i lavoratori in mobilità, perché è appunto all'organo regionale che l'impresa comunica il provvedimento. Nella specie la lista di mobilità in cui erano inseriti i lavoratori esodati dalla società datrice di lavoro faceva capo verosimilmente alla regione Lombardia, mentre nessuna lista faceva capo alla regione Sicilia, ove il C. operava, ma ove l'azienda non aveva alcuna struttura produttiva.
Da ciò si trae conferma che la disposizione in esame (comma 2, dell'art. 7 della legge n. 223 del 1991) debba essere interpretato nel senso che beneficiano del prolungamento dell'indennità di mobilità i lavoratori che sono iscritti nelle liste di mobilità di quelle regioni che sono comprese nelle aree meridionali di cui al D.P.R. n. 218 del 1978.
4) Ulteriori argomenti a sostegno della tesi sopra esposta si desumono da una disposizione successiva in materia di proroga della indennità di mobilità nei tenitori meridionali, che esplicita il generico riferimento contenuto nell'art. 7, secondo comma, della legge n. 223 del 1991. Si tratta dell'art. 4, comma 3, della legge 28 novembre 1996 n. 608 (di conversione del D.L. 1 ottobre 1996 n. 510) il quale così dispone "Per i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità nelle aree di cui al T.U. delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno, approvato con D.P.R. 6 marzo 1978 n. 218 e nelle aree di cui all'obiettivo n. 2 del Reg. (CEE) n. 2081/93 del 20 luglio 1993 del Consiglio, per i quali il trattamento di mobilità è scaduto o scade entro il secondo semestre 1994, il medesimo è prorogato sino al 31 dicembre 1994, previa domanda da inoltrarsi agli uffici provinciali dell'I. da parte dei soggetti interessati, corredata da dichiarazione resa ai sensi della legge 4 gennaio 1968 n. 15, attestante la persistenza dello stato di disoccupazione". Attraverso questa disposizione di proroga si può dunque addivenire ad una più puntuale interpretazione del generico riferimento fatto alle "aree meridionali" dalla disposizione originaria, ossia dall'art. 7, secondo comma, della legge n. 223 del 1991, nel senso che per ottenere il prolungamento dell'indennità fino al massimo quarantotto mesi, il lavoratore deve essere iscritto nelle liste di mobilità delle regioni comprese nel T.U. sugli interventi del mezzogiorno", vale quindi il luogo in cui è ubicata l'impresa ovvero l'unità produttiva che ha proceduto al collocamento in mobilità.
5) Va inoltre considerato che la legge n. 223 del 1991 riserva alle aree meridionali (di cui al D.P.R. n. 218 del 1978) due ulteriori benefici, entrambi previsti dall'art. 7: al secondo comma si prevede appunto il beneficio per cui è causa, ossia il prolungamento della indennità di mobilità fino a quarantotto mesi, mentre al sesto e settimo comma si prevede, in via temporanea, la possibilità, nelle medesime aree (nonché in quelle dove è superiore alla media nazionale il rapporto tra residenti ed iscritti nelle liste di collocamento), della c.d. mobilità lunga, ossia il diritto, per i lavoratori prossimi al conseguimento della pensione di vecchiaia e di anzianità, di godere della indennità di mobilità fino alla data di maturazione di detti trattamenti pensionistici. In entrambi i corami del citato art. 7 il riferimento, come già detto, viene fatto genericamente alle "aree di cui al T.U. approvato con D.P.R. n. 218 del 1978".
Le disposizioni sulla "mobilità lunga" fu poi estesa ad opera dell'art. 5, comma 6, della citata legge n. 451 del 1994 alle aziende che occupano più di cinquecento dipendenti "dei quali non meno di un terzo in una o più unità produttive situate nella aree territoriali cui trovano applicazione le citate disposizioni della legge n. 223 del 1991...". Detta disposizione, ancorché avente ad oggetto, come già detto, non già il prolungamento dell'indennità su cui verte la presente causa, ma il diverso beneficio della mobilità lunga, sta tuttavia a dimostrare che i maggiori benefici sono riservati ai lavoratori che erano in precedenza occupati presso aziende o unità produttive ubicate nei territori meridionali.
Non sembra quindi condivisibile il diverso orientamento espresso di recente da questa Corte con sentenza del 27 novembre 2002 n. 16798, che interpreta la disposizione in commento come avente riguardo al luogo di residenza del lavoratore in mobilità.
Il ricorso va quindi accolto e la sentenza impugnata va cassata.
Essendo pacifici i presupposti di fatto e cioè che l'attuale controricorrente era dipendente della P.I.C. ubicata a Milano, e che risiedeva a e svolgeva funzioni di informatore medico scientifico a Catania ove la P. non aveva alcuna unità produttiva, non sono necessari ulteriori accertamenti, per cui, all'esito dell'affermato principio di diritto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto della domanda fatta valere con il ricorso introduttivo.
Nulla per le spese dell'intero giudizio ex art. 152 disp. att. c.p.c.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di cui al ricorso introduttivo. Nulla per le spese dell'intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2003.