Svolgimento del processo
C. C. chiedeva al pretore di Taranto l'annullamento del provvedimento disciplinare del licenziamento adottato nei suoi confronti dalla datrice di lavoro s.p.a. B., per violazione del 1° e del 5° comma dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, per mancata affissione del codice disciplinare e per aver inflitto la sanzione ancor prima che fosse decorso il termine di cinque giorni previsto dalla legge. La società si costituiva e resisteva alla domanda per essere stato affisso il codice disciplinare in luogo visibile, per essere stato sentito il lavoratore a difesa e, infine, per essere stato disposto il licenziamento soltanto dopo le giustificazioni del lavoratore, ancorché prima di decorrere il termine di cui al 5° comma dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Il pretore respingeva la domanda, accertando l'avvenuta affissione del codice disciplinare, e la presentazione delle difese del lavoratore; quanto al termine di 5 giorni, riteneva che questo fosse appunto per consentire tali giustificazioni, e, pertanto, ove presentate prima dello scadere del termine, consentivano di adottare il provvedimento disciplinare anche prima dello spirare del termine.
Proponeva appello il C., reiterando le sue doglianze, e, costituitasi la società, il tribunale rigettava il gravame, ritenendo pienamente provata l'affissione alla stregua delle risultanze testimoniali analiticamente valutate, ed affermando che il termine di cinque giorni è previsto dalla legge per assicurare un congruo termine al lavoratore per approntare le sue difese, talché ove il lavoratore, come era avvenuto nel caso in esame, avesse già offerto le sue giustificazioni, il datore di lavoro non era tenuto ad attendere lo spirare del termine stesso.
Contro questa sentenza ha presentato ricorso il lavoratore; la società resiste con controricorso illustrato da memorie.
La questione relativa alla natura dilatoria o perentoria del termine a difesa di 5 gg., sollevata con il secondo motivo, sussistendo una diversa interpretazione della natura dell'anzidetto termine nelle sentenze delle sezioni semplici di questa Suprema Corte, era rimessa alle Sezioni Unite per la composizione del contrasto.
Motivi della decisione
Con il solo mezzo di annullamento, il lavoratore si duole per la violazione e falsa applicazione dell'art. 7, primo e quinto comma, della legge n. 300 del 1970, nonché degli artt. 1322 e 1418 cod. civ. e degli artt. 2104, 2105 e 2106 cod. civ., nonché dell'art. 23 del c.c.n.l. metalmeccanici (artt. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.) per aver omesso di accertare se effettivamente il datore di lavoro avesse predisposto un codice disciplinare, non bastando a tal fine affiggere il contratto collettivo, e, inoltre, se tale affissione fosse in atto al momento della commissione della infrazione sul luogo di lavoro del ricorrente; inoltre, per aver omesso di considerare che il termine di cinque giorni, posto dal quinto comma dell'art. 7 surrichiamato, e perentorio, talché è nulla la sanzione irrogata prima che sia decorso.
Il motivo è infondato.
Innanzi tutto si deve rilevare che in ordine alla prima parte del motivo stesso, la controricorrente ha rilevato che, sia la questione relativa alla mancata predisposizione del codice disciplinare, sia quella concernente la mancata affissione al momento della commissione dell'infrazione, sono proposte per la prima volta in sede di legittimità, devono ritenersi nuove, e, pertanto, inammissibili.
Ed in effetti le questioni in ordine alla esistenza, alla predisposizione, alla avvenuta affissione del contratto collettivo in luogo del codice disciplinare, alla mancata affissione al momento della commissione della mancanza, sono tutte questioni estranee al motivo di appello, incentrato sulla omessa valutazione dei testi i quali avevano riferito di non aver visto, e, pertanto sono questioni nuove, che introducono nel giudizio un nuovo tema di indagine (art. 435 cod. proc. civ.) che non è consentito (Cass. 11 giugno 1981 n. 3802, 10 luglio 1984 n. 4025, 15 ottobre 1985 n. 5060, 1 settembre 1986 n. 5342, 24 ottobre 1989 n. 4330).
Per il resto la esistenza del codice disciplinare, la sua affissione in luogo visibile ai lavoratori, risultavano accertati con un accertamento di fatto, munito di congrua motivazione imperniata nella analitica valutazione delle dichiarazioni rese da alcuni testi, che non è suscettibile di riesame in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 1988 n. 2525).
Il problema della applicabilità del 5° comma dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori ai licenziamenti disciplinari, e, poi, della validità del licenziamento irrogato prima dell'esaurimento del termine di 5 gg., beninteso dopo la presentazione delle giustificazioni da parte del lavoratore, presenta innegabilmente aspetti di particolare rilevanza, anche tenuto conto delle contrastanti interpretazioni della disciplina applicabile, che sono state segnalate dalla sezione Lavoro di questo Supremo Collegio.
a) Questione dell'applicabilità dell'art. 7 al licenziamento disciplinare.
Si deve innanzi tutto premettere che la sent.za n. 204 del 1982 della Corte Cost. dichiarava illegittimi i primi tre commi dell'art. 7 della legge n. 300 (riguardanti la pubblicità del codice disciplinare, la previa contestazione e l'assistenza di difesa) interpretati nel senso della loro inapplicabilità ai licenziamenti disciplinari che non richiamavano dette garanzie, e, pertanto, estendeva dette garanzie a tutti i licenziamenti disciplinari. Da notare che questa sentenza, inoltre:
-1°) - riteneva infondata la questione relativa all'art. 18, 1° comma, della legge n. 300 in quanto tale norma va interpretata nel senso che la reintegrazione nel posto di lavoro è applicabile anche all'ipotesi di licenziamento disciplinare irrogato senza l'osservanza delle garanzie procedurali: "una volta estesi i comma 1° e 3° ai licenziamenti disciplinari, per i quali la normativa si limiti ad includerli tra le sanzioni disciplinari senza l'espresso richiamo dei ripetuti comma, la forza espansiva, di cui sono muniti testi suscettibili di esprimere più ampia norma, estende l'art. 18, 1° comma, alla fattispecie consecutiva alla pronuncia di incostituzionalità", e per questo si preferisce -espressamente- la sentenza interpretativa di rigetto a quella interpretativa di accoglimento;
-2°) - riteneva, peraltro, infondata la questione relativa al comma 5° dell'art. 7 interpretato nel senso che non si estende ai licenziamenti disciplinari il divieto di applicazione della sanzione prima che siano decorsi 5 gg. dalla contestazione: rispetto all'art. 2 Cost. in quanto "i diritti inviolabili del lavoratore, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, non sono vulnerati dalla mancata procastinazione dell'initium dell'una o dell'altra operazione" (id est: emanazione o esecuzione del provvedimento espulsivo, come si evince dal contesto della motivazione), e, rispetto all'art. 24 Cost., perché l'art. 7, comma 5° "non incide sul diritto del lavoratore, colpito da ogni e qualsiasi sanzione disciplinare, di essere sentito a difesa avanti al giudice".
Tuttavia la dottrina criticava la contraddittorietà di questa parte della pronuncia, che, per un verso riteneva applicabili i primi tre commi dell'art. 7 ai licenziamenti disciplinari - e ciò con estensione dell'applicazione dell'art. 18, data la sua forza espansiva, anche per la violazione delle norme procedimentali- e, per altro verso, escludeva proprio la sospensione della applicazione del licenziamento, che dei precedenti commi appariva la logica conseguenza e la premessa ineliminabile per far sì che la difesa del lavoratore avesse la possibilità di dispiegarsi prima della applicazione della pena privata. E la giurisprudenza, da parte sua, tenuto conto della natura non vincolante della interpretazione data dalla Corte Costituzionale alla norma in esame, nella pronuncia di rigetto, addiveniva (cfr. oltre alle sentt. cass. 9 luglio 1979 n. 3937, 28 novembre 1979 n. 6241, che avevano preceduto la sentenza della Corte Costituzionale, Cass. 27 ottobre 1983 n. 6356, 7 novembre 1983 n. 6579, 25 luglio 1990 n. 7520 - salvo il potere di rinunciare alla prestazione ove il datore ritenga la mancanza tale da non consentire la permanenza in azienda dell'incolpato-, 27 novembre 1992 n. 12666, 27 gennaio 1993 n. 1000), pur non senza contrasti (Cass. 13 ottobre 1987 n. 7562, 16 novembre 1987 n. 8399 - ma con riguardo al rapporto di lavoro nautico-, e S.U. 16 dicembre 1987 n. 9302), alla affermazione della applicabilità ai licenziamenti disciplinari anche del quinto comma del richiamato art. 7 dello Statuto.
b) Questione sulle conseguenze della applicazione del licenziamento prima che siano decorsi i 5 gg. di cui al 5° comma dell'art. 7.
Per quanto attiene poi alla questione relativa alla nullità del provvedimento disciplinare irrogato prima che sia decorso il termine di cinque giorni, di cui al quinto comma dell'art. 7 su richiamato, effettivamente la interpretazione di questa disciplina da parte della stessa sezione Lavoro di questa Suprema Corte, non è univoca.
Un primo gruppo di sentenze (Cass. 4 maggio 1977 n. 1694, 26 ottobre 1982 n. 5618, 2 marzo 1987 n. 2207, 21 gennaio 1988 n. 463, 10 febbraio 1988 n. 1421, 11 giugno 1988 n. 4009, 8 novembre 1988 n. 6009; si deve ricordare ancora Cass. 21 aprile 1993 n. 4671, per la quale il termine in questione "individua il termine entro il quale le eventuali controdeduzioni del lavoratore devono pervenire al datore di lavoro") considera il termine come dilatorio, volto a favorire la difesa del lavoratore, di guisa che, ove tale scopo sia stato raggiunto, in pendenza di detto termine, per avere il lavoratore presentato le proprie discolpe, il procedimento disciplinare può proseguire senza necessità di attendere la frazione residua del termine stesso. Altre sentenze (Cass. 26 gennaio 1989 n. 461, 24 aprile 1991 n. 4484), invece, affermano che il termine in questione è tassativo ad opera a favore del lavoratore essendo rivolto ad assicurare la "decantazione" dei fatti e la irrogazione più meditata della sanzione, di guisa che, indipendentemente dal comportamento del lavoratore che abbia fornito le sue giustificazioni prima della scadenza del termine, deve decorrere interamente prima che sia consentito dare corso alla punizione.
Si deve innanzi tutto sottolineare come i lavori preparatori sullo Statuto siano privi di riscontri idonei ad illuminare sulla volontà del legislatore, né ciò deve sorprendere posto che è communis opinio che, almeno al momento della approvazione della legge n. 300, per sanzioni disciplinari nello Statuto si intendessero propriamente quelle conservative, ed apparendo all'epoca insanabile il contrasto esistente tra un licenziamento in tronco (cioé per "una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto": art. 2119 cod. civ.) ed una sospensione del licenziamento, beninteso nel silenzio della disciplina contrattuale.
Su questo assetto, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 1982, intervenivano ancora dapprima la sentenza n. 2 del 1986, e, successivamente quella n. 427 del 1989.
La sent. n. 2 del 1986 della Corte Cost. riteneva infondata la questione di legittimità degli artt. 8 e 11 della legge n. 604 nella parte in cui consentono una disparità di trattamento, in punto di risarcimento dei danni, tra lavoratori illegittimamente licenziati per i quali si applicano dette norme, e quelli per i quali si applicano gli artt. 18 e 35 della legge n. 300, in ragione dei diversi requisiti dimensionali e strutturali; riteneva inoltre infondata la questione di legittimità degli artt. 33, 1° e 2° comma della legge n. 300 e dell'art. 11, 1° comma, della legge n. 604 (N.B. ora la legge n. 108 del 1990, art. 6, ha abrogato il richiamo all'art. 18 del primo comma dell'art. 35, ed ha abrogato il primo comma dell'art. 11 su richiamati) nella parte in cui stabiliscono limiti dimensionali numerici al di sotto dei quali non opera il sistema della sindacabilità giurisdizionale del licenziamento, vigendo il regime del recesso ad nutum (art. 2118 cod. civ.).
Questa sentenza ricordava come "i criteri adottati dal Parlamento nel 1966 erano stati rivisti anche in considerazione dell'evolversi delle esigenze organizzative collegate al progresso tecnologico ed alla svolta avutasi con l'ingresso del sindacato nelle fabbriche. E, quindi, con l'art. 35 della legge n. 300 del 1970, il legislatore aveva adottato un altro criterio che si sottraeva a censure sotto il profilo della razionalità, perché si trattava di valutazione discrezionale di politica legislativa avente riguardo ad equilibri economico-sociali che ne avevano consigliato l'adozione nell'interesse generale (sent. n. 55 del 1974)." Inoltre "per quanto riguarda le conseguenziali differenze di tutela dei lavoratori, incardinati nelle diverse unità produttive, la Corte ha ravvisato il fondamento della disciplina differenziata, oltre che nel criterio della fiduciarietà del rapporto di lavoro, e nell'opportunità di non gravare di oneri eccessivi le imprese di modeste dimensioni, anche e soprattutto nell'esigenza di salvaguardare la funzionalità delle unità produttive intese quale articolazioni di una o più complessa organizzazione imprenditoriale, fornite di autonomia dei punti di vista economico-strutturale e funzionale, nonché del risultato produttivo ed in specie di quelle con un minor numero di dipendenti nelle quali la reintegrazione nel medesimo ambiente del dipendente licenziato avrebbe potuto determinare il verificarsi di una tensione nelle quotidiane relazioni umane e di lavoro (sentt. n. 55 del 1974, nn. 152 e 189 del 1975)"; aggiungeva la sentenza: "l'assetto realizzato risulta giustificato essendo ancora attuale la crisi economica che colpisce le imprese ed il paese e non essendo ancora sopite le tensioni del mondo del lavoro e non essendo ancora risolti i numerosi problemi." Precisava che "la più intensa tutela (la c.d. tutela reale)" trovava "adeguata giustificazione nelle necessità di svolgimento dell'attività sindacale in fabbrica, introdotta dallo Statuto dei lavoratori". Razionale era altresì la diversa misura del risarcimento del danno: a) per imprese con meno di 35 dipendenti o per non-imprese, il risarcimento è sanzione alternativa alla riassunzione (tutela obbligatoria); b) la reintegra (c.d. tutela reale) per i dipendenti di unità produttiva con più di 15 dipendenti (5 per l'agricoltura) comporta che il rapporto si consideri mai interrotto, con liquidazione minima forfaitaria di cinque mensilità, ed il diritto alla retribuzione della disposta reintegrazione sino alla esecuzione della medesima (salvo l'aliundem perceptum o il maggior danno); c) per le imprese con meno di 35 dipendenti o unità produttive con meno di 15 dipendenti, si applica l'art. 2118 cod. civ. (recesso ad nutum).
Questi principi si rivengono altresì nella coeva sentenza delle S.U. 16 gennaio 1986 n. 222, che rimeditava e modificava le affermazioni contenute nella precedente sentenza n. 6068 del 1983.
Affermava tra l'altro questa sentenza: "Nei rapporti sottoposti alla legge vincolistica n. 604 del 1966, il datore di lavoro, anche non imprenditore, può recedere con l'osservanza delle particolari formalità previste dall'art. 2, a pena di inefficacia del recesso, solo per giusta causa o giustificato motivo, conservando il klicenziamento, pur ingiustificato, l'idoneità ad estinguere il rapporto, giacchè spetta al datore di lavoro scegliere tra la riassunzione del lavoratore ed il pagamento di una penale risarcitoria (così S.U. 21 febbraio 1984 n. 1236)". Non così per i rapporti rientranti nella disciplina della legge n. 300 del 1970, per i quali il recesso dell'imprenditore può esercitarsi solo per giusta causa o giustificato motivo, e la reintegrazione nel posto di lavoro (estesa anche alle ipotesi di nullità ed inefficacia, oltre che di annullabilità) postula la non idoneità del licenziamento stesso, che sia poi riconosciuto illegittimo, a determinare la estinzione del rapporto, rimasto pregiudicato nella sua funzionalità ma non nella sua continuità (S.U. 29 aprile 1985 n. 2762).
Ne conseguiva che, prima della approvazione della legge n. 108 del 1990, la disciplina dei licenziamenti era diversificata in relazione alle dimensioni dell'impresa e precisamente:
-a) per le imprese fino a 15 dipendenti (fino a 5 per le imprese agricole), erano applicabili gli artt. 2118 e 2119 cod. civ.: c.d. area del recesso ad nutum (Cass. 22 aprile 1980 n. 2629, 16 marzo 1982 n. 1715, 13 gennaio 1983 n. 225, 25 febbraio 1983 n. 1453, 18 maggio 1983 n. 3435, 20 ottobre 1983 n. 6165, 24 maggio 1984 n. 3208, 3 giugno 1991 n. 6265; ma per Cass. 29 novembre 1988 n. 6447 e 1° febbraio 1992 n. 1037, il lavoratore ha diritto "in presenza delle condizioni previste dall'art. 11 della legge n. 604, alla tutela obbligatoria prevista dall'art. 8"; e per Cass. 8 luglio 1988 n. 4521, invece, anche in mancanza del requisito numerico per l'applicabilità dello Statuto, la violazione delle garanzie procedimentali è causa di nullità e ne consegue l'equiparazione, quanto agli effetti, alla violazione dell'art. 2 della legge n. 604); -b) alle imprese di dimensioni maggiori, si applicava lo Statuto dei lavoratori: c.d. area della tutela reale (surrichiamata S.U. n. 2762 del 1985, alla quale seguivano, tra le altre, 2 ottobre 1985 n. 4782, 16 ottobre 1985 n. 5109, 23 novembre 1985 n. 5842, 9 aprile 1986 n. 2492, 14 aprile 1986 n. 2624, 24 aprile 1986 n. 2895, 21 gennaio 1987 n. 544, 30 marzo 1987 n. 3077, 13 febbraio 1988 n. 1592, 26 gennaio 1989 n. 473, 30 gennaio 1990 n. 596, 20 giugno 1990 n. 6193, S.U. 19 luglio 1990 n. 7380, 23 novembre 1992 n. 12498, 10 luglio 1993 n. 7583);
-c) se il datore di lavoro non era imprenditore, occorreva distinguere: se vi eran più di 35 dipendenti, si applicava la legge n. 604 del 1966 (c.d. area della tutela obbligatoria: S.U. 17 ottobre 1983 n. 6068, Cass. 17 maggio 1985 n. 3034, S.U. 15 ottobre 1985 n. 5050 e 16 gennaio 1986 n. 222, 23 novembre 1992 n. 12486), altrimenti, così come nei casi di libera recedibilità, si applicavano gli artt. 2118 e 2119 cod civ. (Cass. 24 maggio 1984 n. 3208, S.U. 9 dicembre 1986 n. 7295, 1 giugno 1987 n. 4823, 5 novembre 1987 n. 8189, oltre alle su richiamate sentt. delle S.U. nn. 5050 e 222).
Si perveniva (dopo che la giurisprudenza di legittimità aveva escluso la applicabilità delle garanzie di procedimento alle piccole aziende: S.U. 5 novembre 1987 n. 8189, seguita da Cass. 18 maggio 1989 n. 2393 che specificamente escludeva il dubbio di contrasto con la Costituzione, 22 marzo 1989 n. 1439, 11 febbraio 1989 n. 851, 13 gennaio 1989 n. 133, 19 dicembre 1988 n. 6907, 5 dicembre 1988 n. 6603, 18 novembre 1988 n. 6260), infine, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 427 del 25 luglio 1989, che, secondo la interpretazione datane anche da questo Supremo Collegio (Cass. 12 maggio 1990 n. 4079, 18 aprile 1990 n. 3184, 25 settembre 1991 n. 9983, 5 dicembre 1991 n. 13097, 14 marzo 1992 n. 3146, 6 luglio 1992 n. 8205, 5 febbraio 1993 n. 1433, 24 febbraio 1993 n. 2249, 2 marzo 1993 n. 2553, ed infine, Cass. 4 marzo 1993 n. 2596), ha esteso le garanzie procedimentali dei commi secondo e terzo dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 anche all'area della libera recedibilità.
Questa sentenza, in particolare non contiene alcuna indicazione specifica riguardo agli effetti del licenziamento irrogato in violazione delle disposizioni di cui all'art. 7, se si esclude la pur importante affermazione testuale, di carattere generale, che il "numero condiziona le conseguenze che derivano dall'eventuale declaratoria di licenziamento". E, pertanto, sembrerebbe non potersi avere, in area di libera recedibilità, né l'ordine di reintegra ex art. 18 dello Statuto, né l'applicazione dell'art. 8 della legge n. 604.
Del resto, per correttamente intendere la portata della sentenza n. 427 della Corte Costituzionale, non si può prescindere dalle precisazioni che la stessa Corte ha fatto, al riguardo, nella successiva sent. n. 586 del 29 dicembre 1989, allorché, sollevata questione di legittimità dell'art. 7 dello Statuto, per non prevedere alcun termine di impugnazione in sede giurisdizionale delle sanzioni disciplinari conservative (valgono i termini di prescrizione ordinari: Cass. 30 luglio 1987 n. 6622), a differenza del licenziamento per il quale l'art. 6 della legge n. 604 fissa un termine di decadenza di 60 gg., affermava la legittimità della diversità, malgrado la estensione delle garanzie alle piccole imprese, di cui alla precedente sentenza n. 427: "Ma in tal modo non si è inteso affatto assimilare in toto i licenziamenti alle sanzioni disciplinari. La distinzione rimane sul piano dei contenuti e degli effetti. Proprio questa differenza rende razionale il differente trattamento e, quindi, la disposizione censurata.
Dalla forza estintiva del rapporto di lavoro e dall'effetto espulsivo del licenziamento nasce il problema della sollecita soluzione della ricostituibilità" (n.b. non "ricostituzione") "del rapporto, e dell'eventuale cessazione di efficacia del provvedimento.
Consegue, cioé, l'interesse del lavoratore ad una sollecita declaratoria da parte del giudice, dell'eventuale illegittimità, nullità, inefficacia o annullamento del licenziamento, e, a seconda dei casi, ad un'immediata reintegrazione nel posto di lavoro o quanto meno ad un congruo risarcimento dei danni".
Le tesi conseguenti sono sostanzialmente quattro: -a) il rapporto prosegue come se il licenziamento non vi fosse stato, con diritto del lavoratore alla retribuzione, a meno che il datore non lo riammetta al lavoro (tesi della nullità; cfr. ad es.
Cass. n. 9993 del 1991 su richiamata, e Cass. 7 settembre 1993 n. 9390; 3 giugno 1992 n. 6741; 23 novembre 1990 n. 11311, 8 luglio 1988 n. 4521, per la quale, si è visto, l'efficacia espansiva dell'art. 18 prescinde dall'esistenza dei presupposti di applicazione della tutela reale);
-b) la procedura viziata è rinnovabile - non si pone un problema di immediatezza, poiché questa si è realizzata con la intimazione del licenziamento per giusta causa e senza preavviso, ancorché viziato per difetto nel procedimento- (tesi della mera illegittimità: il licenziamento è inefficace, ma mantiene il limitato effetto di consentire la rinnovazione della procedura, senza perdere la caratteristica della "immediatezza"; cfr. Cass. 18 maggio 1988 n. 3457);
- c) il licenziamento, intimato per giusta causa, si "converte" in licenziamento ad nutum e comporta soltanto l'obbligo di corrispondere l'indennità di mancato preavviso (tesi della nullità, ma attenuata negli effetti; cfr. Cass. 7 dicembre 1982 n. 6683, 8 febbraio 1985 n. 1035, 27 marzo 1985 n. 2165);
- d) non si versa in ipotesi di invalidità configurabile come nullità, per una delle due diverse seguenti ragioni: d. 1) perché si è nell'ambito di un atto emesso in una situazione di carenza di potere e, pertanto, quanto agli effetti, del tutto assimilabile al licenziamento ingiusto, intimato in mancanza di giusta causa, con gli effetti (tutela reale) propri della vis espansiva dell'art. 18 della legge n. 300 - per i rapporti ivi previsti-, ma, (per i diversi rapporti non rientranti in quella previsione: area della c.d. tutela obbligatoria) con l'effetto della obbligazione alternativa - con scelta al datore di lavoro- o di riammettere al lavoro o di corrispondere quanto previsto dall'art. 8 della legge n. 604 (Cass. 29 novembre 1988 n. 6447, 1° febbraio 1992 n. 1037, 5 febbraio 1993 n. 1433, 24 febbraio 1993 n. 2249): si tratterebbe, come pure è stato detto, in analogia a quanto a suo tempo affermato dalla Corte Costituzionale per l'art. 18 dello Statuto (sentenza n. 204 del 1982, ma cfr. anche C. Cost. 11 marzo 1988 n. 338 e 22 gennaio 1987 n. 17), di una via espansiva dell'art. 8 della legge n. 604; ovvero, per i residui rapporti a c.d. "libera recedibilità", con il solo effetto di essere dovuta la indennità sostitutiva del preavviso, essendo il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo. - d.2) l'altra soluzione, anch'essa esulante dalla qualificazione del difetto procedimentale come "nullità" dell'atto unilaterale di recesso (ciò in quanto la giusta causa non è "causa" del licenziamento, e non ne è neppure motivo, ma solo un presupposto di fatto del quale il datore può valersi per conseguire l'effetto di non corrispondere la indennità di mancato preavviso - nell'area di libera recedibilità- o le conseguenze previste dall'art. 8 della legge n. 604 - nell'area c.d. di tutela obbligatoria-): "il licenziamento disciplinare è, nell'area di libera recedibilità (come nell'ambito di applicazione della legge n. 604 del 1966 attesa la formulazione esaustiva dell'art. 1), un licenziamento per giusta causa o, eventualmente, nel quadro della legge del 1966, per giustificato motivo soggettivo caratterizzato dalla natura (colpa in senso generico) del fatto adebitato al lavoratore. Il motivo disciplinare non altera quindi la causa del negozio, che resta l'estinzione del rapporto di lavoro" (di ciò una indiretta conferma si coglie in Cass. n. 5262 del 1988). E ancora: "L'inosservanza di tali regole preclude quindi al datore di lavoro la possibilità di attribuire rilevanza, quale giusta causa di recesso, alla infrazione disciplinare e di conseguire, nell'area di libera recedibilità, l'effetto, ad essa associato, di esonero dal preavviso: il licenziamento si risolve, cioé, in licenziamento ad nutum privo di giusta causa" (Cass. 4 marzo 1993 n. 2596). Queste teorie sembrano ricostruire l'ambito degli effetti del licenziamento "illegittimo", secondo la configurazione progressivamente estesasi dagli artt. 2118 e 2119 cod. civ., alla legge n. 604 del 1966 - in particolare agli artt. 2, 4, 8, 11 -, e, poi dalla legge n. 300 del 1970 e dagli effetti delle sentenze n. 204 del 1982 e n. 427 del 1989 della Corte Costituzionale, interpretate anche con le precisazioni di cui alla sent. n. 586 del 1989, nel senso di distinguere gli effetti tenendo conto della "sufficienza della tutela": e pertanto la "nullità" riguarda violazioni di principi fondamentali che non tollerano eccezioni (art. 4 legge n. 604, art. 15 legge n. 300, sent. n. 61 del 1991 della Corte Cost.); la "inefficacia" (art. 2 legge n. 604) o "illegittimità" (sentenze n. 202, n. 427 e n. 586 della Corte Cost. su richiamate) si determinano per violazioni che non attentano a valori assoluti e tali da consentire che "il numero condizioni le conseguenze che derivano dall'eventuale declaratoria di illegittimità del licenziamento" (sent. n. 427 del 1989 della Corte Cost.). Il criterio, della sufficienza della tutela, così interpretata la norma, sembra esattamente quello adottato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 61 dell'8 febbraio 1991, che riteneva illegittimo per violazione degli artt. 3 e 37 Cost. l'art. 2 della legge 30 dicembre 1971 n. 1204, nella parte in cui prevedeva la temporanea inefficacia anzicché la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice in gestazione o puerperio; e ciò immediatamente dopo che le S.U. di questo Supremo Collegio avevano escluso trattarsi di nullità, S.U. 21 agosto 1990 n. 8535): ma si trattava di una esigenza di tutela non limitata alla salute fisica della donna e del nascituro, ma che investe il rapporto anzidetto "anche con riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed effettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino".
Da ricordare per concludere la disamina, allo stato attuale, della evoluzione dell'ordinamento giuridico, la legge 11 maggio 1990 n. 108, che, durante i lavori preparatori, in sede di commissione, recava l'ultimo c.p.v. del 1° comma dell'art. 1 così formulato "Al licenziamento per motivi disciplinari si applicano le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell'art. 7, quale che sia il numero dei lavoratori occupati. La violazione delle predette disposizioni comporta la nullità del licenziamento con le conseguenze di cui al primo comma del presente articolo.": ma nel testo della sua definitiva approvazione (mercoledì 11 aprile 1990, in sede legislativa, sono approvati gli emendamenti soppressivi dell'ultimo capoverso del primo comma dell'art. 1, non illustrati) non conteneva alcun cenno al licenziamento disciplinare, alla applicabilità al medesimo dell'art. 7 dello Statuto, e, soprattutto agli effetti della violazione del medesimo.
Da rilevare che la mancata indicazione da parte del legislatore del termine "nullità" o della definizione di "nullo", deve ritenersi tanto più significativa, dopo la approvazione della legge n. 108 del 1990 nel modo descritto, ove si consideri che detta nullità era invece prevista e sancita, proprio in tema di licenziamenti, sia dell'art. 4 della legge n. 604 del 1966 e ciò "indipendentemente dalla motivazione adottata", sia dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e ciò con riferimento a "qualsiasi patto od atto (anche solo) diretto a" discriminare il lavoratore licenziato. In sede parlamentare di approvazione della legge, questa era criticata dall'opposizione in quanto, mentre il quesito referendario era rivolto ad estendere la tutela reale, in effetti "si era ampliata l'area di applicazione della legge 604 del 1966, la quale attiene alla tutela obbligatoria". Da notare, d'altra parte, che la legge n. 108 nell'estendere la tutela obbligatoria con la espressa abrogazione del 1° comma dell'art. 11 della legge n. 604, fornisce la prova testuale del sopravvivere, sino alla data della sua entrata in vigore, della libera recedibilità per i "piccoli" datori di lavoro (per i dirigenti ciò era affermato esplicitamente dalla sent. n. 309 del 3 giugno 1992 della Corte Costituzionale, sia pure con il limite di "fatti che ledono la sua dignità di uomo e di lavoratore": licenziamento orale, discriminatorio, senza l'osservanza di norme che richiedano il riconoscimento di garanzie procedimentali); ora la questione ha perduto gran parte della sua rilevanza, restando confinata alle residue ed eccezionali ipotesi di licenziamento ad nutum.
Da quanto esposto consegue che, sia per ragioni sistematiche, sia tenuto conto del non casuale impiego del termine "illegittimità" riferito alla conseguenza della violazione dell'art. 7 nelle due fondamentali pronunzie della Corte Costituzionale (la sent. n. 204 del 1982 e la sent. n. 427 del 1989, e tenuto conto altresì della successiva sent. n. 586), sia, infine, dapprima della previsione della "nullità" nei lavori preparatori della legge n. 108 del 1990, e, successivamente della soppressione di tale comma in sede definitiva, per tutti questi motivi, deve escludersi che si versi in una ipotesi di nullità.
Non essendo controverso che l'azienda di cui al presente ricorso rientrasse nella c.d. area della tutela reale, e che alla medesima si dovesse pertanto applicare lo Statuto dei lavoratori (art. 18), ne consegue che qualora effettivamente il licenziamento disciplinare fosse stato disposto prima ancora che il termine a difesa fosse decorso, questo era illegittimo, e ad esso si applicavano, proprio in virtù della loro "forza espansiva" (in quanto "testi suscettibili di esprimere più ampia norma": Corte Cost. sent. n. 204 del 1982), le disposizioni dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
c) Questione relativa alla possibilità di applicare anche prima dello spirare del termine di cui all'art. 7, quinto comma, della legge n. 300 del 1970, purché il lavoratore abbia già presentato le proprie difese.
In ordine a questo problema vi è un primo orientamento interpretativo, secondo il quale il licenziamento può essere effettivamente disposto, purché dopo le difese, anche prima che siano trascorsi i 5 gg.; ciò in quanto (Cass. 4 maggio 1977 n. 1694) "la difesa non avrebbe potuto meglio esplicarsi con il rispetto del detto termine" quando il lavoratore prima della scadenza del termine "ha negato del tutto i fatti addebitatigli", atteso che (Cass. 26 ottobre 1982 n. 5618) "presentate le difese, senza formulare riserve di ulteriori deduzioni, lo scopo della assegnazione del termine è stato pienamente realizzato non ravvisandosi invero il permanere di un concreto interesse del lavoratore medesimo al decorso della residua frazione"; e in quanto (2 marzo 1987 n. 2207) "presentata la difesa il procedimento disciplinare può proseguire senza attendere il decorso dei 5 gg.", (10 febbraio 1988 n. 1421) "scopo realizzato in pendenza del termine", (11 giugno 1988 n. 4009) "presentate le discolpe il procedimento può proseguire"; e inoltre (21 giugno 1988 n. 4240) "non avrebbe senso il termine dilatorio per l'esercizio del diritto di difesa, quando in pendenza dello stesso termine fosse possibile applicare la sanzione pur in mancanza di tale diritto"; infine (21 aprile 1993 n. 4671), configurandosi i 5 giorni come "il termine entro il quale debbono pervenire le difese".
Secondo un diverso orientamento interpretativo, invece, il termine in questione avrebbe valore tassativo: di guisa che il licenziamento non può essere applicato prima che siano decorsi interamente i 5 giorni, anche se sono state presentate le difese (Cass. 7 maggio 1983 n. 3130, che non distingue) - "o prima che siano trascorsi i 5 gg."-, (25 luglio 1990 n. 7520) - "osservando peraltro il termine di 5 gg."-, (24 aprile 1991 n. 4484, 21 luglio 1992 n. 8773) - "termine il cui decorso perfeziona la fattispecie attributiva del potere"-, (27 gennaio 1993 n. 1000) "condizione di validità" e non "termine finale" che - "determina l'acquisto o la perdita di un diritto"-; si tratterebbe insomma di uno spatium deliberandi, per far sì che sia irrogata una "meditata" sanzione, e che è in tal caso dilatorio, fermo restando che deve essere rispettato anche se le difese pervengono prima del compimento del termine. Questo Supremo Collegio, valutate le diverse concezioni che presidiano le diverse interpretazioni, nel silenzio della legge e non essendo al riguardo di nessun ausilio i lavori preparatori per la legge n. 300 del 1970, ritiene che si debba aderire alla prima configurazione del termine.
Il termine in questione, invero, non rientra propriamente nella categoria dei termini "ne ante quem", ma, a ben vedere, in quella dei termini "post quem" (cfr. surrichiamata sent. n. 4671 del 1993) rivolta cioé non ad impedire che un determinato atto sia compiuto prima del decorso di un dato tempo, ma ad impedire che ciò avvenga senza che una determinata attività sia stata possibile, e, pertanto, soltanto al compimento della stessa.
Ciò si desume dalla ratio della disposizione, che è rivolta ad impedire che la estromissione dal luogo di lavoro possa avvenire senza che l'incolpato abbia avuto la possibilità di raccogliere e di fornire le prove e gli argomenti a propria giustificazione: il valore che si intende tutelare non è la esistenza, in sé e per sé, di un intervallo di tempo tra contestazione ed irrogazione, ma di un tempo massimo che si ritiene presuntivamente idoneo a consentire le difese.
Presentate le giustificazioni, invero, non è dato ravvisare il permanere di un concreto interesse del lavoratore al decorso della residua frazione del suddetto termine.
Si tratta, nell'ambito del c.d. termini dilatori, propriamente della sottospecie dei termini detti "ibridi", che fissano un intervallo dilatorio fra due atti: appunto per questo è stato affermato, dalla dottrina processaulista, che le norme che prevedono un termine dilatorio fondano una norma agendi per gli organi giudiziari, ma, al tempo stesso conferiscono alle parti un potere finalizzato al concreto ed effettivo diritto di difesa: di guisa che le relative posizioni soggettive o sono qualificate come disponibili, o, qualora siano configurate delle invalidità degli atti, le stesse sono "relative" o suscettibili di sanatoria (pur con l'avvertenza che si tratta di termini di ben diversa natura e pregnanza, si può ricordare ad es. la norma "se la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l'atto omesso o nullo è preordinato" di cui all'art. 183 cod. proc. pen.: in tale ordine di valutazioni cfr. anche Cass. pen. sez. 5a 6 giugno 1969 n. 481, sez. 1a 22 ottobre 1969 n. 931, sez. 2a 13 ottobre 1982 n. 9060, sez. 1a 5 dicembre 1984 n. 10794, per le quali si ha sanatoria della nullità del decreto di citazione per violazione dei termini a comparire, che sono anch'essi dei termini a difesa).
Non appare invero decisiva la formulazione letterale della norma ("non possono essere applicati prima che siano trascorsi"), poiché questa deve essere posta in relazione a quanto disposto dal secondo comma dell'art. 7 ("senza averlo sentito a sua difesa"), talché dal coordinamento tra le due disposizioni discende che l'interesse preminente è appunto quello di consentire al lavoratore di approntare le sue difese; d'altra parte la esigenza di una "mediazione" da parte del datore di lavoro prima di applicare la sanzione espulsiva, ancorché ispirata a nobili intenti di approfondimento e di evitare reazioni impulsive ed inconsulte, oltre a non trovare nessun riferimento testuale nella disciplina, o, almeno, nei lavori preparatori, appare contraddetta dal rilievo incontestabile, colto dalla difesa dell'azienda, che allorché le difese siano state presentate nell'ultimo giorno, allo spirare del termine, nessuna illegittimità potrebbe profilarsi alla sanzione che fosse applicata immediatamente dopo, senza il ben che minimo intervallo di tempo.
Beninteso perché possa ritenersi che il termine abbia esaurito la sua funzione ed il suo scopo di consentire la difesa del lavoratore, è indispensabile che lo stesso, nel proporre le proprie giustificazioni, non abbia manifestato alcuna esplicita riserva di produrre altra documentazione, o ulteriore motivazione, così come nel caso in esame non è tra le parti controverso.
Orbene poiché, per il resto, i giudici di merito hanno accertato che "il lavoratore, immediatamente dopo le contestazioni mossegli, ebbe a presentare le sue giustificazioni", e queste non contenevano riserva alcuna di integrazione, ne consegue il rigetto del ricorso.
Vi sono motivi di giustizia per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, deliberando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del procedimento di cassazione.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione il 18 febbraio 1994.