Svolgimento del processo
Con
decreto pronunziato il 9 gennaio 1996 ex art. 28 L. 20 maggio 1970 n.
300, il Pretore di Roma - pronunziando sul ricorso proposto dalla
Federazione Funzione Pubblica CGIL, Comprensorio di Roma, nei confronti
dell'Associazione A. V. - dichiarava l'antisindacalità del comportamento
della suddetta Associazione, la nullità del trasferimento della L. (sua
dipendente), disposto in data 14 giugno 1994, nonché la nullità del
licenziamento intimato alla stessa L. il 12 luglio 1994; ordinava alla
Associazione di astenersi dal disconoscere la qualità di dirigente della
rappresentanza sindacale aziendale alla L. nonché il potere di
negoziare le questioni rimesse alla contrattazione decentrata; rigettava
le restanti richieste della Organizzazione ricorrente; condannava,
infine, la parte resistente al pagamento delle spese.
A
seguito dell'opposizione dell'Associazione, il Pretore con sentenza del
12 febbraio 1998 revocava il decreto ex art. 28 L. 20 maggio 1970 n.
300 e condannava l'opposta al pagamento delle spese del giudizio.
A
seguito di gravame proposto dalla Federazione Funzione Pubblica CGIL,
il Tribunale di Roma con sentenza del 5 giugno 2001, in riforma
dell'impugnata sentenza, dichiarava la antisindacalità del trasferimento
della L. e del suo successivo licenziamento, condannando la parte
appellata al pagamento delle spese.
Nel
pervenire a tali conclusioni, il Tribunale premetteva che non poteva
essere negata alla L. la qualifica di rappresentante sindacale
aziendale, per la cui nomina lo statuto dei lavoratori non richiede
alcuna modalità o forma rigida. Del resto la L. aveva svolto nei fatti
e, per lungo tempo senza alcuna contestazione, un ruolo attivo e
propulsore della rappresentanza dei lavoratori costituita all'interno
della Associazione A. V., come si evinceva anche dalla prova per testi e
dalla documentazione acquisita.
Ne
conseguiva che alla L. spettavano le prerogative che la legge 20 maggio
1970 n. 300 attribuisce a ciascun rappresentante sindacale aziendale
ed, in particolare, il diritto ai permessi di cui all'art. 23 e la
speciale tutela prevista dall'art. 22 in tema di trasferimenti. La
sanzione irrogata per fruizione dei permessi sindacali che si assumevano
non spettanti doveva ritenersi, conseguentemente, illegittima come del
resto ugualmente illegittimo era il trasferimento, pacificamente
adottato in assenza della preventiva richiesta della organizzazione di
appartenenza. Entrambi tali atti risultavano diretti a limitare
l'esercizio della libertà e della attività sindacale della Federazione
Funzione Pubblica CGIL.
Il
Tribunale osservava poi che il licenziamento adottato il 12 luglio 1994
seguiva di qualche giorno il trasferimento della L. ad una unità
produttiva diversa (14 giugno 1994), il quale a sua volta era stato
adottato a meno di un mese dalla sanzione disciplinare. Per di più, il
suddetto licenziamento - sulla scorta della contestazione del 1 luglio
1994 (l'avere affisso un comunicato nella bacheca sindacale ritenuta
lesiva dell'elemento fiduciario) - non risultava sorretto da giusta
causa, non essendo ravvisabile. in tale documento, contrariamente a
quanto sostenuto dall'Associazione, alcuna espressione in grado di
ledere l'onorabilità dell'Associazione stessa, in quanto detto
comunicate; si presentava come legittima espressione della libertà di
pensiero per contenere una critica civile e non violenta.
Per
concludere, si era in presenza di una condotta diretta nel suo insieme
ad ostacolare in maniera assolutamente radicale l'esercizio
dell'attività sindacale della Federazione Funzione Pubblica attraverso
il licenziamento di un suo dirigente sicché il quadro generale di
chiusura alle varie istanze sindacali, costituzionalmente garantite,
assumeva valore indicativo non trascurabile della antisindacalità della
condotta, per la configurabilità della quale non assumeva alcun rilievo
la sussistenza dell'elemento psicologico, e cioè l'intenzione dolosa o
colposa del datore di lavoro.
Avverso tale sentenza l'Associazione A. V. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso la Federazione Funzione Pubblica CGIL - Comprensorio di Roma.
Ambedue le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1.
Con il primo motivo di ricorso l'Associazione denunzia errata,
insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza resa dal
giudice del gravame in ordine ad un punto decisivo della controversia
(art. 360 c.p.c. n. 5), nonché violazione ed errata interpretazione
degli artt. 19, 22, e 23 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (art. 360 n. 3
c.p.c.) nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c.
(art. 360 n. 3 c.p.c.). Sostiene la ricorrente che dall'istruttoria
espletata emergeva che la Federazione aveva riconosciuto la qualifica di
dirigente, relativamente all'attività svolta nell'ambito della
rappresentanza sindacale dell'Ente, alla sola signora Christiane Haas,
la quale fruiva periodicamente dei permessi sindacali, di cui all'art.
23 stat. lav. In data 2 febbraio 1994 la Federazione aveva poi
provveduto a comunicare all'Ente - proprio in relazione al rinnovo del
Comitato degli iscritti - la nomina di due nuovi delegati (da
aggiungersi a quelli già eletti) nelle persone dei signori Donatella L. e
Roberto Trani, senza nulla precisare in ordine alla posizione sindacale
della L., che negli anni precedenti era stata semplice componente della
rappresentanza sindacale aziendale, mai aveva rivestito la carica di
dirigente e mai aveva fruito di permessi di cui all'art. 23 stat. lav.
Solo
in data 16 giugno 1994 - e dunque successivamente alle vicende di causa
- la Federazione Funzione Pubblica CGIL, rettificando la precedente
nota del febbraio 1994, aveva precisato che la L. era "Coordinatrice
Dirigente". La sentenza impugnata andava, pertanto, censurata nella
parte in cui aveva considerato la L. un dirigente sindacale perché
l'art. 23 stat. lav., in relazione al numero dei dipendenti occupati
dall'Associazione, non consentiva affatto al sindacato di avere più di
un dirigente. Circa il provvedimento di trasferimento e la sua
valutazione, non poteva condividersi l'assunto del giudice d'appello sia
perché detto provvedimento non era stato impugnato dalla L. sia perché
non rientrava tra quegli atti datoriali, assoggettabili alla disciplina
dell'art. 22, atteso che l'allontanamento della L. non era definitivo ma
era limitato a soli tre mesi sicché poteva, nel caso di specie,
parlarsi solo di trasferta, insuscettibile per sua natura di incidere in
maniera definitiva sul rapporto lavorativo e sull'esercizio dei diritti
anche sindacali della L..
1.1. Il motivo è infondato e, pertanto, va rigettato.
A
seguito di un accertamento in fatto, non contestabile in questa sede di
legittimità, il Tribunale ha ritenuto, sulla base delle deposizioni
testimoniali e della documentazione in atti, che la L. aveva svolto sin
dalla sua nomina a rappresentante sindacale aziendale, e per lungo tempo
senza alcuna contestazione, un ruolo attivo e propulsivo della
rappresentanza dei lavoratori costituita all'interno dell'Associazione
A. V..
Su
tale premessa, il Tribunale ha poi qualificato come antisindacale la
condotta della Associazione A. V. avendo la stessa, come detto, sempre
riconosciuto alla L. le prerogative di un rappresentante sindacale
aziendale ed avendo, poi, disposto il suo trasferimento senza il nulla
osta richiesto dall'art. 22 L. 20 maggio 1970 n. 300.
Nel
pervenire a tale conclusione il Tribunale ha proceduto ad un
valutazione del materiale probatorio che si sottrae a qualsiasi critica e
si è attenuto a corretti principi giuridici affermando, prima, che per
dirigenti delle r.s.a. devono intendersi tutti i delegati che compongono
la rappresentanza sicché le prerogative di cui agli artt. 18, 22, 23 e
24 stat. lav. spettano a ciascun componente di detta rappresentanza. e
precisando, poi, come il legislatore non esiga alcuna formalità nella
nomina di tali componenti. Va al riguardo sottolineato come l'art. 19
stat. lav., giusta quanto osservato in dottrina, assuma un carattere
definitorio volto ad identificare i soggetti titolari per legge dei
diritti sindacali individuati e regolati dagli artt. 20 e segg. stat.
lav., e come i soli requisiti richiesti perché si produca l'effetto
della titolarità dei diritti sindacali siano dati dalla costituzione
della rappresentanza sindacale aziendale ad "iniziativa dei lavoratori" e
dalla circostanza che detta rappresentanza operi "nell'ambito" delle
organizzazioni che rispondono ai requisiti indicati dall'art. 19 stat.
lav. nel testo risultante dall'esito referendario dell'11 giugno 1995.
Requisiti questi da intendersi secondo lo spirito del diritto sindacale
in maniera scevra da formalismi, alla stregua delle prassi riscontrabili
nella concreta dinamica delle relazioni industriali, tanto che anche il
requisito dell'iniziativa dei lavoratori facenti parte dell'unità
produttiva - configurante un presupposto per la nomina dei
rappresentanti sindacali aziendali - debba essere inteso in senso
elastico ed indeterminato si da potersi esprimere anche in un
comportamento concludente dei lavoratori che nel fatti riconoscano e
facciano propria la designazione proveniente dal sindacato (cfr. per
riferimenti Cass. 23 maggio 1991 n. 5801).
1.2.
Sempre in questa ottica volta a liberare la materia in oggetto -
incentrata su di una visione sostanzialistica dell'iniziativa e
dell'azione sindacale - da formalismi capaci di appesantirne
l'operatività e di tradirne lo spirito, si è anche patrocinata
l'applicabilità della tutela dell'art. 22 ad ogni lavoratore che,
indipendentemente dalla sua posizione formale all'interno
dell'organizzazione aziendale, svolga una attività tale da potersi
ritenere responsabile della struttura sindacale aziendale, dominando un
criterio di effettività del ruolo ricoperto dal dipendente nella
struttura sindacale.
Una
lettura dei dati normativi in termini non formalistici è condivisa
dalla giurisprudenza, che ha infatti ripetutamente affermato che la
garanzia posta dall'art. 22 dello statuto dei lavoratori - secondo cui
il trasferimento del dirigente di una rappresentanza sindacale aziendale
è consentito solo previo nulla osta della associazione sindacale di
appartenenza - riguarda i lavoratori che, a prescindere dalla
qualificazione meramente nominalistica della loro posizione
nell'organismo sindacale suddetto, svolgano, per le specifiche funzioni
da essi espletate, una attività tale da poterli far considerare
responsabili della conduzione della rappresentanza sindacale (cfr. al
riguardo: Cass. 4 luglio 1991 n. 7386; Cass. 26 gennaio 1989 n. 480;
Cass. 17 marzo 1986 n. 1821).
E
sempre in sede di trasferimento del lavoratore deve ritenersi - sulla
base della ratio dell'art. 22 stat. lav., ed ancora una volta in una
visione "non formalistica" delle garanzie sindacali - che rientri
nell'ambito applicativo del suddetto articolo 22 ogni tipo di
allontanamento dalla sede lavorativa che, per determinare un distacco,
completo e di apprezzabile durata, dal luogo di svolgimento
dell'abituale attività sindacale, sia suscettibile di produrre una
lesione (anche potenziale) all'azione del rappresentante sindacale,
equiparabile in termini fattuali - in ragione cioè dell'interesse leso -
al trasferimento. Valutazione quest'ultima che, comportando un
specifica valutazione delle circostanze che accompagnano il
provvedimento datoriale, deve essere operata dal giudice di merito la
cui decisione se sorretta - come nel caso di specie - da una motivazione
adeguata ed improntata a retti criteri logico - giuridici, non è
suscettibile di alcuna censura nel giudizio di cassazione.
2.
Con il secondo motivo la ricorrente associazione denunzia violazione ed
errata interpretazione dell'art. 2119 c.c. nonché errata ed
insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. In
particolare sostiene la ricorrente che, contrariamente a quanto
affermato dalla Impugnata sentenza, i fatti addebitati alla L.
configuravano una giusta causa di licenziamento atteso che, pur essendo
stata esclusa in essi una rilevanza penale, avevano in concreto
comportato discredito per l'Associazione. Ed invero, il diritto di
critica, garantito ad ogni rappresentante sindacale, non può mai
trasformarsi in una condotta suscettibile di provocare una lesione del
decoro dell'impresa datoriale nè può concretizzarsi in accuse infondate,
prive di qualsiasi riscontro ed ingiustamente pregiudizievoli
all'interesse della controparte. La complessiva condotta della
lavoratrice, che aveva tenuto comportamenti disciplinarmente censurabili
- e che si era falsamente qualificata rappresentante sindacale
aziendale ai fini di usufruire dei relativi permessi - aveva fatto
venire meno il vincolo fiduciario sicché non era consentito dubitare
della legittimità del licenziamento per essere il recesso sorretto da
giusta causa.
2.1. Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento.
L'esercizio
da parte del lavoratore - anche se investito della carica di
rappresentante sindacale - del diritto di critica delle decisioni
aziendali sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Cost. incontra i
limiti della correttezza formale che sono imposti dalla esigenza, anche
essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della
persona umana. Detto esercizio, inoltre, non deve superare i limiti del
rispetto della verità oggettiva e non deve tradursi in una condotta
gravemente lesiva del decoro della impresa datoriale, suscettibile come
tale di provocare danni irreparabili e, conseguentemente, di legittimare
il licenziamento del lavoratore per giusta causa (cfr. in argomento:
Cass. 24 maggio 2001 n. 7091; Cass. 16 maggio 1998 n. 4952 cui adde, con
riferimento alla critica politica ed ai suoi limiti, Cass. 7 novembre
2000 n. 14485).
Nella
fattispecie in esame il Tribunale ha osservato che l'affissione del
volantino, diffuso tra i dipendenti dell'Associazione e che poi ha dato
origine al licenziamento, per forma e contenuto non era "nulla più che
una espressione di normale, usuale manifestazione di solidarietà
sociale, di lecito esercizio del diritto di manifestazione del pensiero,
di critica espressa in toni decisi ma civili, determinati ed
intransigenti ma "corretti e non violenti", risultando tra l'altro il
linguaggio adottato nemmeno "particolarmente forte".
Orbene,
la censura mossa alla impugnata decisione non ne contesta la logicità e
neanche la congruità motivazionale. Detta decisione, pertanto,
risultando rispettosa oltre che dei canoni logici anche dei principi
giuridici, cui innanzi si è fatto riferimento, si sottrae in questa sede
di legittimità ad ogni critica.
3.
Con il terzo motivo di ricorso la Associazione denunzia violazione e
falsa applicazione dell'art. 28 L. 20 maggio 1970 n. 300, assumendo che
ai fini della configurabilità della condotta antisindacale non è
sufficiente la mera obiettiva idoneità del comportamento datoriale a
ledere l'attività o la libertà sindacale ovvero il diritto di sciopero,
essendo altresì necessario che a tale comportamento si accompagni anche
l'elemento soggettivo della intenzionalità. Nel caso di specie non v'era
alcun dubbio che il comportamento aziendale della Associazione era
inidoneo ad essere considerato antisindacale per essere privo
dell'elemento della intenzionalità a ledere i diritti dell'Associazione,
perché la decisione di intimare il licenziamento per giusta causa era
basata su fatti che già il primo giudice aveva ritenuto essere di
estrema gravità e tali da far venir meno il rapporto fiduciario. Per
altro verso l'azione cautelare, proposta dalla Federazione Funzione
Pubblica CGIL, difettava di altro requisito, ritenuto indispensabile per
legittimare il ricorso ex art. 28 stat. lav., perché i fatti di causa
si riferivano ai primi mesi del 1994 mentre erano stati oggetto di
denunzia di antisindacalità solo in data 19 settembre 1994.
3.1.
Il Tribunale di Roma ha osservato che l'applicazione di sanzioni
disciplinari ingiustificata, il trasferimento ed il licenziamento
adottato in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo
assumevano un significato probante della esistenza di una condotta volta
a limitare in maniera diretta ed incisiva l'esercizio da parte della
Federazione Funzione Pubblica CGIL dell'attività sindacale attraverso
l'atto finale del licenziamento del suo dipendente. In particolare il
giudice d'appello ha osservato come nella accertata insussistenza di
valide ragioni poste a sostegno della misura disciplinare, del
trasferimento e del recesso, il quadro generale di chiusura alle istanze
sindacali, costituzionalmente garantite, assumeva valore indicativo non
certo trascurabile della intenzionale antisindacalità della condotta.
3.2.
Risultando le argomentazioni del Tribunale logiche e rispettose dei
principi vigenti in materia, le doglianze contenute nel terzo motivo del
ricorso si appalesano anche esse infondate.
Come
ha statuito questa Corte di Cassazione, per integrare gli estremi della
condotta antisindacale di cui all'art. 28 stat. lav. è sufficiente che
tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi cui sono
portatrici le organizzazioni sindacali non essendo necessario (ma
neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di
lavoro nè nel caso di condotte tipizzate perché consistenti
nell'illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di
assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali
idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi
sindacali) nè nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite,
ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la
libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è
l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che
la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà
sindacale e del diritto di sciopero(cfr. in tali termini: Cass. Sez.
Un., 12 giugno 1997 n. 5295).
3.3.
Per concludere va anche evidenziato come, contrariamente a quanto
sostenuto dall'Associazione ricorrente, non possa addursi al fine di
pervenire al rigetto (o all'inammissibilità) della domanda, spiegata ex
art. 28 stat. lav. dalla Federazione sindacale in epigrafe, la
circostanza che detta domanda sia stata proposta nel settembre 1994, a
fronte di fatti accaduti nei primi mesi del 1994, e che, pertanto, nel
caso di specie difettava il requisito della "attualità" della condotta
antisindacale.
Al
fine di rilevare l'infondatezza della censura è sufficiente ricordare
che il solo esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di
lavoro non può costituire preclusione alcuna della pronunzia di un
ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove
questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli
episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti
durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la
situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in
qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio
dell'attività sindacale. in altri termini, il procedimento di
repressione dell'attività antisindacale richiede necessariamente
l'attualità della condotta o presuppone che siano ancora in atto i suoi
effetti lesivi della libertà ed attività del sindacato (cfr. al riguardo
Cass. 2 settembre 1996 n. 8032; Cass. 5 aprile 1991 n. 3568; Cass. 3
luglio 1984 n. 3894).
Nel
caso di specie la mancata reintegrazione della L. nel posto di lavoro
attesta che gli effetti della condotta antisindacale della Associazione
sono tuttora perduranti e, conseguentemente, legittimano
l'organizzazione sindacale ad agire in giudizio ex art. 28 stat. lav.
4. Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 27 novembre 2002.