Svolgimento del processo
G. R., sulla premessa di aver prestato attività lavorativa prima alle dipendenze dirette della C. di Rimini, nell'ambito dei servizi di assistenza contabile e fiscale da questa forniti agli associati, e in un periodo successivo alle dipendenze della società a responsabilità limitata Co., appositamente costituita per la gestione della medesima attività, ha convenuto in giudizio dinanzi al Pretore di Rimini il secondo dei soggetti indicati per ottenere il pagamento di crediti retributivi per complessive lire 8.739. 915.
La società convenuta, nel contestare la fondatezza della domanda, ha chiesto in via riconvenzionale il risarcimento del danno cagionato dallo svolgimento negligente dei compiti affidati al R..
Il Pretore, con sentenza non definitiva e con quella definitiva, ha accertato crediti del lavoratore e crediti della società di pari importo, dichiarandone la compensazione.
Gli appelli proposti dal R. avverso le due sentenze sono stati respinti dal Tribunale di Rimini.
La motivazione della sentenza, in relazione ai motivi dell'impugnazione che interessano questo giudizio, può riassumersi nei termini che seguono.
Sebbene il danno cagionato dal comportamento del R. si fosse verificato nel corso del rapporto di lavoro con la C., della pretesa risarcitoria era titolare la società perché unico era stato il rapporto di lavoro.
Il R. aveva chiesto il pagamento della retribuzione relativa al mese di ottobre 1986, ma la società aveva provato l'avvenuto pagamento a mezzo di assegno di conto corrente recante la data del 24 ottobre 1986 (data di cessazione del rapporto); inammissibilmente in appello il R. aveva dedotto la circostanza nuova di non aver ricevuto la retribuzione relativa a precedente periodi di paga.
L'ammontare del danno cagionato dall'inadempimento del R., determinato con riguardo alle somme corrisposte dalla C. agli associati che avevano subito un pregiudizio dallo svolgimento negligente dell'attività, non poteva ridursi per effetto dell'asserita, ma non dimostrata, esistenza di una copertura assicurativa, senza la prova dell'avvenuto pagamento di indennizzi.
Il limite del quinto all'operatività della compensazione per i crediti retributivi deve calcolarsi sul complesso delle retribuzioni ricevute dal dipendente nel corso del rapporto.
La corrispondenza tra gli importi dei rispettivi crediti era stata stabilita dal Pretore tenendo correttamente conto anche della rivalutazione e degli interessi spettanti alla società in relazione alla natura risarcitoria del credito.
La cassazione della sentenza è stata chiesta dal R. con ricorso articolato in cinque motivi, al quale ha resistito con controricorso la S.r.l. Co..
La parte resistente ha depositato memoria a norma dell'art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, denunziando la violazione dell'art. 81 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., il R. assume che la S.r.l. Co. non poteva azionare un credito di cui era titolare un soggetto distinto, e cioè l'associazione non riconosciuta Co., atteso che proprio la fattispecie della cessione ex lege del contratto per effetto del trasferimento di azienda, presuppone la diversità dei soggetti.
Il motivo non è fondato perché, come accertato dal giudice di merito e come ammette il ricorrente stesso, la separata organizzazione imprenditoriale a mezzo della quale l'associazione svolgeva l'attività di assistenza e consulenza, contabile e finanziaria, nei confronti degli associati, è stata trasferita alla società a responsabilità limitata.
Opera di conseguenza il principio generale dettato dall'art. 2559 c.c., della cessione ex lege dei crediti inerenti all'azienda ceduta non aventi carattere personale (arg. ex art. 2558 c.c.), carattere che non riveste il credito risarcitorio nei confronti di un debitore resosi inadempiente verso un'organizzazione imprenditoriale (cfr. Cass., Sez. Un., 1 ottobre 1993, n. 9802).
Il principio generale trova poi specifica regolamentazione, con riguardo ai rapporti di lavoro, nel disposto dell'art. 2112, comma 1, c.c., secondo il quale, in caso di trasferimento dell'azienda, il cessionario succede nel contratto di lavoro nella medesima situazione giuridica del cedente.
Al riguardo, va richiamata la giurisprudenza della Corte secondo la quale la fattispecie del trasferimento dell'azienda si realizza in tutte le ipotesi di mutamento della titolarità dell'impresa, qualunque sia la forma giuridica adottata, e, in particolare, anche quando al nuovo soggetto passi non tutta l'attività svolta da quello precedente, ma soltanto quella imputata ad un'autonoma unità organizzativa e produttiva (cfr. Cass. 5 maggio 1983, n. 3086; id. 12 febbraio 1985, n. 1177; Id. 10 marzo 1990, n. 1963).
2. Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione dell'art. 1227 c.c., nonché il vizio di omessa motivazione, perché il dovere di ordinaria diligenza comporta che il datore di lavoro debba provvedere a stipulare una polizza assicurativa per i rischi connaturali al tipo di attività svolta e, conseguentemente, ad attivarla; sulla circostanza della copertura assicurativa, inoltre, più testimoni avevano riferito di essere a conoscenza che la C. aveva provveduto a stipulare un'assicurazione.
La prospettazione della questione di diritto così operata dal ricorrente non trova il conforto della giurisprudenza della Corte, secondo la quale il dovere di correttezza imposto al danneggiato dall'art. 1227, comma 2, c.c. presuppone il compimento di un'attività che avrebbe avuto il risultato certo di evitare o ridurre il danno, onde non implica l'obbligo di svolgerne una gravosa e comportante rischi e spese (Cass. 15 dicembre 1970, n. 2690; Id. 7 maggio 1991, n. 5035); in ogni caso, la norma innanzi richiamata non è applicabile se non sussistono la condotta colposa del creditore ed il nesso di causalità tra tale condotta ed il prodursi del danno, che devono essere dimostrati dal debitore (Cass. 6 ottobre 1972, n. 2900; Id. 17 novembre 1976, n. 4291; Id. 29 novembre 1985, n. 5975).
Alla stregua del descritto quadro di principi, pertanto, si deve escludere che non rispetti il dovere di ordinaria diligenza il datore di lavoro che non provveda a stipulare un contratto di assicurazione idoneo ad eliminare o ridurre il rischio del dipendente di dovere rispondere economicamente degli errori commessi.
Neppure sussiste il dedotto vizio della motivazione, posto che, in relazione al contenuto estremamente generico delle deposizioni testimoniali, quale riferito nel ricorso, il Tribunale correttamente si è limitato ad osservare che non era provata neppure l'esistenza del contratto di assicurazione che la società avrebbe omesso di attivare.
3. Anche il terzo motivo del ricorso, con il quale viene denunziata la violazione dell'art. 1246 c.c. e dell'art. 545 c.p.c. perché la compensazione non avrebbe potuto operare oltre il limite del quinto del credito retributivo, non trova il conforto della giurisprudenza della Corte.
L'orientamento consolidato è infatti nel senso che l'istituto della compensazione postula l'autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti, autonomia che non sussiste allorché i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, risolvendosi in tal caso la valutazione delle reciproche pretese in un semplice accertamento contabile di dare o avere.
Nella specie, infatti, i crediti delle due parti sono tutti inerenti al rapporto di lavoro intercorso tra le parti, con la conseguenza che non possono trovare applicazione le norme dettate per la compensazione in senso proprio o giuridico (cfr., ex plurimis, Cass. 6 febbraio 1987, n. 1245; Id. 16 marzo 1987, n. 2758; Id. 4 luglio 1987, n. 5874; Id. 11 aprile 1990, n. 3067; Id. 21 maggio 1993, n. 5758).
Pertanto la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione sul punto, limitandosi la Corte a correggerne la motivazione (art. 384, comma 2, c.p.c.).
4. Con il quarto motivo del ricorso oggetto di censura è la statuizione della sentenza impugnata relativa al pagamento della retribuzione del mese di ottobre 1986.
Secondo il ricorrente, il Tribunale ha violato gli artt. 1193 e 2697 c.c. perché, essendosi la società limitata a produrre le matrici di due assegni di c/c, l'uno datato 25 settembre e l'altro 24 ottobre, non poteva ritenere provato il pagamento delle spettanze dei periodi di paga precedenti, in particolare delle spettanze relative al mese di agosto.
La questione in diritto è, in astratto, correttamente prospettata perché, per le stesse considerazioni svolte nell'esame del terzo motivo, anche l'art. 1193 c.c. presuppone una pluralità di rapporti obbligatori e non è applicabile all'ipotesi dell'unitario credito retributivo, con la conseguenza che se il creditore deduce che sono stati pagati soltanto acconti computati nel saldo richiesto, è il debitore che deve provare il fatto totalmente solutorio (cfr. Cass. 21 maggio 1993, n. 5758; Id. 29 dicembre 1993, n. 12938).
Ma il Tribunale di Rimini non ha commesso errori nell'applicazione delle norme giuridiche richiamate dal ricorrente, avendo esattamente risolto la questione sul rilievo che il R., lungi dal domandare genericamente la retribuzione di un mese di lavoro, aveva specificamente dedotto in primo grado di non aver ricevuto i compensi relativi al mese di ottobre 1986 e non poteva, perciò, mutare in appello i fatti posti a base della domanda, introducendo un nuovo tema di indagine.
5. Il quinto e ultimo motivo concerne l'errore che il Tribunale avrebbe commesso, con violazione dell'art. 112 c.p.c. e degli artt. 1224 e 2697 c.c., nel ritenere che il credito della società dovesse essere incrementato della rivalutazione e degli interessi, sebbene nessuna domanda fosse stata specificamente formulata e nessuna prova del danno fornita.
La questione, nei limiti segnati dalla formulazione del motivo, è stata correttamente decisa dal Tribunale.
Il credito al risarcimento del danno per inadempimento contrattuale, al pari di quello derivante da responsabilità extracontrattuale, ha natura di credito di valore e non di valuta, sottratto perciò all'operatività del principio nominalistico e all'area di applicazione dell'art. 1224 c.c. (cfr. Cass. 18 aprile 1977, n. 1423).
Ne segue che il giudice che procede alla sua "liquidazione", cioè a trasformarne la natura in credito pecuniario, deve procedere all'adeguamento monetario, determinando la quantità di moneta rappresentativa del "valore" (operazione che comunemente si indica come "rivalutazione" e che consiste nell'esprimere in danaro il credito con riguardo all'epoca della sua insorgenza, rapportando poi la somma all'attualità sulla base del tasso di inflazione della moneta).
Dalla natura propria del credito di valore discende che all'adeguamento monetario (rivalutazione) il giudice deve procedere anche di ufficio, perché non si tratta di attribuire un credito accessorio e perciò diverso, ma di giudicare dell'unica pretesa risarcitoria (cfr. Cass. 23 dicembre 1968, n. 4065; Id. 24 maggio 1976, n. 1875; Id. 25 luglio 1977, n. 3294; Id. 11 novembre 1977, n. 4897; Id. 16 febbraio 1978, n. 760; Id. 9 luglio 1982, n. 4081; Id. 29 giugno 1985, n. 3888; Id. 14 dicembre 1988, n. 6903; Id. 3 luglio 1991, n. 7275; Id. 9 aprile 1992, n. 4380; Id. 1 dicembre 1992, n. 12839).
La somma rivalutata rappresenta però soltanto il valore sottratto o non prestato al patrimonio del danneggiato, ma questi la riceve, all'esito dell'operazione di liquidazione (giudiziale o consensuale) trascorso un tempo più o meno lungo da verificarsi del fatto dannoso: deve quindi essere compensato, perché il risarcimento sia completo, anche della mancata disponibilità immediata della somma rappresentativa del valore; in altri termini, l'adeguamento monetario rappresenta solo il danno emergente, ma deve essere risarcito anche il lucro cessante (art. 1223 c.c.), consistito nel non avere avuto nel proprio patrimonio la somma per un determinato periodo di tempo.
Il danno da lucro cessante è liquidato equitativamente (artt. 1226 e 2065 c.c.); in genere, in mancanza di elementi diversi e specifici, mediante l'attribuzione degli interessi legali sulla somma rivalutata.
La natura giuridica di questi interessi, pertanto, non è quella degli interessi moratori dovuti ex art. 1224 c.c., norma applicabile alle sole obbligazioni pecuniarie ma non a quelle di valore; anzi, la categoria dell'obbligazione accessoria d'interessi non si presta a comprendere quella che è semplicemente una modalità di liquidazione del danno da ritardo, che a sua volta è una voce, una componente del danno complessivo subito (cfr. le sentenze da ultimo richiamate).
Neppure gli interessi, pertanto, devono essere specificamente richiesti, restando compresi nell'unitaria domanda di risarcimento.
Pertanto, la società non aveva l'onere di formulare specifiche richieste e di fornire la prova del danno, non versandosi nell'area di applicazione dell'art. 1224 c.c. e del "maggior danno" previsto dalla detta norma.
6. La Corte, anche in considerazione dell'operata correzione in diritto della motivazione della sentenza impugnata, ritiene che ricorrano giusti motivi per compensare le spese tra le parti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso il 28 aprile 1994.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 MAGGIO 1995.