Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 29 aprile 1993 E. F., F. S. e Fr. S., tutti nella qualità di eredi di R. S., adivano il Pretore di Palmi, in funzione di giudice del lavoro, esponendo che il loro dante causa R. S., deceduto in data 11 settembre 1992, era affetto da patologie gravi che ne avevano menomato la capacita di muoversi autonomamente e di attendere alle proprie ordinarie e personali necessità quotidiane. Chiedevano, quindi, che fosse riconosciuto giudizialmente lo stato di invalidità assoluta del loro dante causa ed il diritto all'indennità di accompagnamento, e che il Ministero dell'Interno fosse condannato al pagamento dei relativi ratei. Il Pretore rigettava la domanda ed il Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza del 5 gennaio 2002, confermava la prima decisione. Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale escludeva, sulla base del disposto dell'art. 437 c.p.c., che si potesse tenere conto dei nuovi documenti (non indicati nell'atto di appello) prodotti nel corso del gravame, e sui quali il consulente tecnico d'ufficio nominato in quel grado del giudizio aveva fondato, in via esclusiva, il suo parere positivo sulla sussistenza del requisito sanitario richiesto per il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento. A sostegno della sua decisione il giudice d'appello osservava che i documenti in oggetto erano stati depositati solo dopo l'inizio delle operazioni, violandosi così il precetto che limita la possibilità di acquisire documenti in appello solo al momento della proposizione del gravame.
Precetto che nel caso di specie risultava applicabile trattandosi non di documenti sopravvenuti ma invece di documenti di data anteriore al primo grado di giudizio.
Avverso tale sentenza E. F., F. S. e Fr. S., nelle suddetta qualità, propongono ricorso per Cassazione, affidato ad un unico articolato motivo.
Resiste con controricorso il Ministero dell'Interno. A seguito di ordinanza del 22 luglio 2003 della Sezione lavoro il Primo Presidente ha disposto che, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., le Sezioni unite si pronunzino in ordine all'ammissibilità nelle controversie di lavoro della produzione di nuovi documenti in appello, per essere la questione stata oggetto di contrasto all'interno della stessa Sezione lavoro.
Motivi della decisione
1. Con l'unico motivo di ricorso gli eredi di R. S. denunziano violazione di legge e mancata o insufficiente motivazione sui punti decisivi della controversia (art. 1 legge n. 18 del 1980 e successive modificazioni; art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.). In particolare denunziano che il giudice di appello ha disatteso con la sua decisione la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha ripetutamente affermato che nel rito del lavoro i documenti, quali prove precostituite, ancorchè non indicati nel ricorso possono essere prodotti fino all'udienza di discussione, anche in appello, senza incorrere nelle preclusioni di cui agli artt. 414, 416 e 437 c.p.c.; norme quest'ultime applicabili alle sole prove costituende.
2. Ragioni di ordine argomentativo rendono opportune alcune preliminari considerazioni sulla problematica oggetto dell'esame di queste Sezioni Unite.
2.1. Come evidenziato nella già indicata ordinanza del 22 luglio 2003, dopo la sentenza delle Sezioni unite del 6 settembre 1990 n. 9199 - secondo la quale la produzione dei documenti, pur sottraendosi al divieto sancito dall'art. 437 c.p.c., esige a pena di decadenza che essi siano indicati specificamente nel ricorso dell'appellante o nella memoria dell'appellato e vengano depositati contestualmente a tali atti (salvo che si tratti di documenti sopravvenuti o la cui produzione sia giustificata dallo sviluppo della vicenda processuale) - sono intervenute numerose pronunzie che hanno confermato quanto statuito dalla ricordata decisione, anche in ordine alle modalità ed ai limiti della produzione (cfr. ex plurimis: Cass. 26 maggio 2004 n. 10128, con riferimento alle controversie in materia di locazione, cui è applicabile il rito del lavoro, cui adde, Cass. 19 maggio 2003 n. 7845; Cass. 24 novembre 2000 n. 15197; Cass. 5 agosto 2000 n. 10335" Cass. 10 giugno 2000 n. 7948; Cass. 4 maggio 2000 n. 5596; Cass. 29 dicembre 1999 n. 14690; Cass. 17 novembre 1994 n. 9724, ed, ancora, Cass. 15 ottobre 1992 n. 11323, che ha però escluso la regola della necessaria indicazione dei documenti nuovi nell'atto introduttivo del giudizio di appello con riferimento alle controversie in tema di invalidità pensionabile, ove la documentazione medica riguardi aggravamenti o infermità certificati in epoca posteriore al deposito del ricorso d'appello).
Altre decisioni, invero, nel confermare la non operatività divieto di cui all'art. 437, comma 2, c.p.c. in relazione alle prove costituite, hanno mostrato maggiore flessibilità nel dare ingresso alla produzione dei documenti, statuendo che detta produzione, anche se i documenti non siano indicati in ricorso, possa avvenire fino alla udienza di discussione anche in appello(Cass. 19 marzo 2003 n. 4048; Cass. 25 gennaio 2000 n. 817 nonchè, con riferimento ai documenti sopravvenuti nel corso del giudizio d'appello, e, pertanto, inevitabilmente non indicati nel ricorso, Cass. 2 novembre 1998 n. 10944; Cass. 8 aprile 1998 n. 3640).
Uno scrutinio delle indicate pronunzie ne evidenzia il dato comune nell'assunto, condiviso anche da una parte della dottrina, che il divieto sancito dall'art. 437, comma 2, c.p.c. - di ammissione in grado di appello nelle controversie soggette al rito del lavoro di nuovi mezzi di prova (salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione) - si riferisca soltanto alle prove costituende, per le quali è previsto in generale un giudizio di ammissibilità ed un procedimento di assunzione (cui fa riferimento in particolare lo stesso art. 437, comma 3, c.p.c.) e non riguarda invece la produzione di documenti, la cui acquisizione, tra l'altro, non contrasta con le esigenze di concentrazione e di immediatezza caratterizzanti il processo del lavoro.
2.2. Si è andato nel tempo, però, formando un indirizzo restrittivo, fondato sul principio che il potere del giudice d'appello di ammettere nuovi documenti trova un limite nel carattere veramente "nuovo" che la documentazione offerta in sede di impugnazione deve avere, sicchè il documento che poteva essere indicato ex art. 414 n. 5 c.p.c. nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado non può più essere prodotto in appello(cfr.
Cass. 4 agosto 1994 n. 7233). E sempre nell'ambito di più restrittivi orientamenti, in alcuni pronunziati è stato, poi, affermato che nel rito del lavoro è inammissibile la produzione del documenti sul quali il giudice di primo grado abbia già emesso una pronunzia di inammissibilità, con contestuale dichiarazione di decadenza della parte stessa dalla facoltà di produrli, osservandosi al riguardo che la produzione di tali documenti vanificherebbe la sanzione di decadenza già pronunziata (cfr. Cass. 6 marzo 2003 n. 3380; Cass. 16 maggio 2000 n. 6342; Cass. 2 aprile 1992 n. 4013).
Nello stesso ordine di idee si è poi rimarcato che il principio per cui il giudice può rilevare di ufficio le eccezioni in senso lato o improprio, non comporta di per sè che, nel rito speciale del lavoro, la parte possa produrre in grado di appello documenti a sostegno di una di dette eccezioni quando non siano stati formati successivamente all'introduzione del giudizio di primo grado, ed in quel giudizio sia stata pronunciata la decadenza della parte dalla produzione tardivamente effettuata(Cass. 11 agosto 1998 n. 7907).
2.3. Si ascrive all'indirizzo volto a rendere rigoroso il sistema delle preclusioni, con riferimento alla produzione dei documenti, l'affermazione dei giudici di legittimità che la possibilità per la parte di produrre, tardivamente nel giudizio di primo grado, prove documentali presuppone ex art. 420, comma 5, c.p.c. che si tratti di documenti sopravvenuti nella disponibilità delle parti stesse ed in ogni caso che si tratti (in coerenza con il disposto dell'art. 416 n. 3 c.p.c.) di documenti a sostegno di eccezioni o posizioni difensive tempestivamente dedotte, risultando "fuorviante invocare la nota ripartizione tra prove costituite e prove costituende" al fine di superare le preclusioni rigidamente indicate dalla citata norma del codice di rito (cfr. in tali sensi; Cass. 1 ottobre 2002 n. 14110).
2.4. Nel quadro globale dei precedenti giurisprudenziali sulla problematica in esame, sicuramente espressione dell'indirizzo più rigoroso è una recente pronunzia della Sezione lavoro di questa Corte che, dopo avere sottoposto a revisione critica tutti gli elementi su cui si basa il contrario orientamento, esclude, sulla base di ragioni sìa testuali che logico-sistematiche, la possibilità di differenziare ai fini preclusivi prove costituite e prove costituende, da ciò facendo scaturire l'inclusione del documenti nei "nuovi mezzi di prova", indicati nell'art. 437, comma 2, c.p.c., con conseguente applicabilità anche per la produzione documentale della disciplina limitativa delle prove in appello, dettata dalla summenzionata disposizione di rito. Nel delineato assetto ricostruttivo della operatività nel rito del lavoro delle preclusioni, il limite alla producibilità dei nuovi documenti finisce così per non operare solo per i documenti preesistenti, la produzione dei quali sia giustificata dallo sviluppo assunto dal processo(art. 420, comma 5 e 7, c.p.c.); i documenti destinati a provare un fatto di cui, con ragionevole attendibilità, non è prospettabile una particolare contestazione; i documenti costituiti, pur dopo il ricorso introduttivo della lite, aventi ad oggetto l'accertamento delle condizioni di salute dell'assicurato, che possono essere esibiti nel corso del giudizio ed anche in grado d'appello in ragione del disposto dell'art. 149 disp. att. c.p.c. (che nelle controversie previdenziali in materia di invalidità da rilievo all'aggravamento della malattia, nonchè a tutte le infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si siano verificate tanto nel corso del processo amministrativo che di quello giudiziario) (cfr. Cass. 20 gennaio 2003 n. 775).
3. L'indirizzo da ultimo indicato, che ha indotto la dottrina a rivisitare approdi in buona misura sedimentati ed a sollecitare un intervento di queste Sezioni Unite volto a eliminare - nell'esercizio dei suoi poteri nomofilattici - il denunziato contrasto, impongono alcune considerazioni sulla specialità del processo del lavoro al fine di accertare se ed in quali limiti detta specialità si rifletta sulla soluzione della problematica in esame.
4. Queste Sezioni Unite in relazione all'onere "di prendere posizione, in materia precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda" previsto dall'art. 416, ultimo comma, prima parte c.p.c., hanno statuito che il combinato disposto di quest'ultima disposizione e dell'art. 167, 1 comma, c.p.c. fa "della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti"; su tale premessa hanno poi precisato che nel nostro sistema il principio della "non contestazione" viene ad accreditarsi di tendenziale irreversibilità (dovendosi fare salvi i casi di contestazione rimessi ad atti successivi a quelli introduttivi del giudizio) "in piena coerenza con la struttura del processo che, nel rito del lavoro, è finalizzata a far si che all'udienza di discussione la causa giunga delineata in modo compiuto, quanto ad oggetto ed ad esigenze istruttorie, secondo un modello non estraneo, ormai, come nota autorevole dottrina, neanche al rito ordinarlo, improntato, dopo la riforma del 1990, a finalità di chiarezza e semplificazione rese palesi dal concatenamento fra la fase diretta alla chiarificazione della posizione delle parti e la fase della formulazione delle richieste istruttorie" (cfr. in tali sensi Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2002 n. 761, cui adde successivamente, Cass. 8 febbraio 2003 n. 1562; Cass. 15 gennaio 2003 n. 535).
4.1. Gli enunciati principi, che si pongono in linea con il rigoroso sistema delle preclusioni dettato dal legislatore del 1973 (che ha disegnato un coerente sistema ispirato ai principi di concentrazione, immediatezza ed oralità, propugnati da autorevole dottrina processualistica) e che si presentano come passaggio obbligato per una effettiva funzionalità dell'intero sistema incentrato sulle preclusioni e sulle decadenze di cui agli artt. 414 c.p.c. e 416 c.p.c. (sistema che trova piena legittimazione costituzionale nel carattere paritario della disciplina difensiva dell'attore e del convenuto, giusta quanto evidenziato da Corte Cost. 14 gennaio 1977 n. 13), sono stati ribaditi di recente da altra pronunzia delle Sezioni Unite, che ha messo in evidenza come il principio della non contestazione del "fatto costitutivo del diritto" sia funzionalizzato alla predisposizione dell'udienza di discussione, in cui si completa quello che è stato definito "il quadro complessivo" della materia in giudizio, in relazione al quale è possibile condurre le necessario indagini istruttorie onde pervenire alla decisione con celerità (anche, cioè, nella stessa udienza, definita alla stregua di quanto disposto dall'art. 420 c.p.c. "tendenzialmente unica") (cfr. al riguardo Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353). In tale contesto ricostruttivo i giudici di legittimità hanno anche sottolineato - con argomentazioni in verità capaci di assumere portata generale a seguito della novella n. 353 del 1990 (e delle modifiche conseguenti alla l. n. 534 del 1995) e di certo improntate anche ad una ineludibile tutela della certezza, celerità ed economia dei giudizi - come nel rito del lavoro si riscontri tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova una indubbia circolarità, con reciproco condizionamento, come è attestato dall'evidenziata impossibilità di richiedere la prova oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito su fatti non allegati nonchè su circostanze che, pur configurandosi come presupposti del diritto azionati, non siano stati esplicitati in modo specifico nel ricorso introduttivo del giudizio(cfr. Cass., Sez. Un., 11 giugno 2004 n. 11353 cit.). circolarità questa che, seppure con distinte modalità espressive, viene riconosciuta in dottrina allorquando si sottolinea, al fine di un dinamico ma nello stesso tempo razionale svolgimento del processo, la necessaria correlazione che lega l'attività di deduzione delle prove (attività istruttoria) all'attività di introduzione dei relativi fatti da provare (attività assertiva).
4.2. Gli enunciati principi segnano i confini entro i quali deve trovare composizione il contrasto in esame. In ragione del rispetto della Invocata funzione nomofilattica di questa Corte, che verrebbe a subire un grave vulnus se a fronte al suddetti principi si finissero per introdurre incoerenze sistematiche, sicuramente riscontrabili In una ricostruzione della dinamica processuale che, a fronte di una estrema rigorosità nella determinazione del tempi di indicazione (precisazione o modificazione) degli elementi (di fatto e di diritto) posti a base della domanda, e delle eccezioni (processuali e di merito) della controparte (cfr. artt. 414 n. 4 e 416 per il rito del lavoro; ed artt. 163 n. 4, 166, 183 e 184 per il rito ordinario), si finissero poi per avallare opzioni ermeneutiche volte - senza un sicuro approdo a chiari precetti normativi - ad affrancare le produzioni documentali da preclusioni operative per tutte le restanti prove.
4.3. Al fini decisori va da ultimo rimarcato che - pur non potendosi di certo attraverso il sistema delle preclusioni ledere il diritto di difesa delle parti e la ricerca della verità materiale - la garanzia della "ragionevole durata del processo" (riconosciuta come diritto dall'art. 6 della Convenzione europea ed ora espressamente sancita dall'art. 111, comma 2, Cost.), debba fungere come parametro di costituzionalità delle norme processuali per essere oggetto "oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello di un giudizio equo ed imparziale;-(così da ultimo Corte Cost. 21 marzo 2002 n. 78), con la conseguenza che l'opera ermeneutica del dato normativo deve accompagnarsi - come è stato osservato da quanti si sono confrontati proprio con le problematiche in questa sede esaminate - alla consapevolezza che i termini acceleratori e le preclusioni volte ad impedire l'ingresso nel processo di un fatto e/o di una prova sono funzionalizzati proprio a tutelare il suddetto principio della cagionevole durata" e quello, ad esso correlato, dell'"economicità" del giudizio.
5. E' generalizzata in dottrina ed in giurisprudenza la distinzione delle prove in prove costituite e prove costituende, per caratterizzarsi, le prime (come le prove documentali) per la loro formazione al di fuori del processo (e, di solito, prima di esso) e per l'acquisizione nel processo attraverso un mero atto di esibizione, e le seconde (come le prove orali: prove testimoniali, confessione, giuramento, ecc.) per formarsi, di contro, nel processo, come risultato dell'attività istruttoria a seguito di una istanza di parte e di consequenziale provvedimento di ammissione del giudice.
5.1. orbene, la diversa regolamentazione tra prove costituite e prove costituende - concretizzantesi nel riconoscimento di spazi più ampi (anche se indicati, nel variegato panorama dottrinario e giurisprudenziale, in termini non sempre coincidenti) di ingresso nel processo per le prime - viene fondata sostanzialmente su un duplice ordine di argomenti.
Il primo di carattere letterale fa leva sulla distinta menzione di "mezzi di prova" (art. 345, comma 3, per il rito ordinario; art. 420, comma 5 e 7, art. 421, comma 2, art. 437, comma 2, per il rito del lavoro) identificati con le prove costituende, e del termine "documenti" (art. 163 n. 5, art. 167, comma 1, art. 184 per il rito ordinario; art. 414 n. 5, 416, comma 2, per il rito del lavoro), da identificarsi, invece, con le prove costituite. Il secondo di carattere logico-sistematico viene ravvisato nella diversa ricaduta delle due differenti categorie di prove sulla durata del processo, per non necessitare le prove precostituite di nessuna attività istruttoria capace di ritardare l'esito della controversia.
5.2. Le argomentazioni suddette, evocate ripetutamente in numerosi pronunziati (cfr. tra le tante: Cass. 12 luglio 2002 n. 10179; Cass. 20 novembre 2000 n. 15197 cit.; Cass. 29 marzo 1993 n. 1359; Cass., Sez. Un., 6 settembre 1990 n. 9199 cit., cui adde, in epoca più risalente, Cass. 25 maggio 1978 n. 2654; Cass. 29 giugno 1997 n. 2835; Cass. 16 ottobre 1976 n. 3503), sono state sottoposte di recente a revisione oltre che dai ricordati pronunziati anche dalla dottrina che, con voce quasi unanime, ha ritenuto che la produzione documentale viva delle stesse preclusioni previste per le prove costituende, con considerazioni che questa Corte ritiene di condividere.
5.3. La sottolineatura operata da più parti della distinzione codicistica tra "mezzi di prova" (i soli che sarebbero ammessi al vaglio dell'ammissibilità), e "documenti" (che sarebbero, invece, assoggettabili unicamente al giudizio di rilevanza), per inferirne in via argomentativa una diversa incidenza delle preclusioni - scaturenti dall'imposizione di termini perentori o decadenze sull'indagine istruttoria(con conseguente sottrazione della produzione documentale al dictum dell'art. 345, comma 3, e 437, comma 2, c.p.c.), oltre a non tenere conto che, non certo di rado, lo stesso legislatore codicistico parla di "mezzi di prova" e di "ammissione" degli stessi anche con riferimento alla produzione documentale (cfr. art. 698 c.p.c. sull'assunzione delle prove preventive; art. 495, comma 3, c.p.p. che, regolando i provvedimenti del giudice in ordine alla prova, statuisce espressamente:"Prima che il giudice provveda sulla domanda, le parti hanno facoltà di esaminare i documenti di cui è chiesta l'ammissione"), non assegna, per di più, il dovuto valore all'opinione di chi, autorevolmente, nell'ambito della dottrina processualistica, ha rimarcato come anche la prova documentale sia un "mezzo di prova", perchè tutte le prove sono "mezzi", cioè strumenti per asseverare quanto assunto dalle parti nei loro atti difensivi, perchè in senso tecnico l'espressione "mezzi di prova" sta, appunto, ad indicare "le persone o le cose da cui si vogliono trarre elementi di conoscenza utili alla ricerca della verità".
Ed in una medesima ottica si è affermato che i documenti configurano una specie, sia pure particolare, del genus "mezzi di prova", evocandosi a sostegno di tale assunto il disposto dell'art. 163 n. 5, sopravvissuto alle novelle del 1950 e del 1990, che (con formula analoga a quella degli artt. 414 n. 5, e 416, comma 3) prevede che l'atto di citazione deve contenere "l'indicazione specifica del mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi ed in particolare dei documenti che offre in comunicazione", sicchè è lecito concludere che il legislatore ha adottato una nozione di "mezzi di prova" comprensiva del documenti, i quali ne costituiscono, appunto, una species ("in particolare").
Il dato letterale, cui è stato assegnato una pregnante portata contenutistica, viene così a trovare la sua ratio in ragioni che tale portata non giustificano per risalire unicamente al distacco temporale tra il momento della produzione di documenti e quello dell'ammissione, come è significativamente attestato dall'art. 87 disp. att. c.p.c. che - in relazione ai documenti offerti in comunicazione dalle parti dopo la loro costituzione - dispone il deposito in cancelleria con la comunicazione del relativo elenco alle altre parti ex art. 170, ult. comma, c.p.c. non certo per escludere un giudizio sulla loro ammissibilità (la cui richiesta è implicita nella stessa produzione), ma per consentire che anche su di essa venga assicurato un effettivo contraddittorio.
Merita, dunque, pieno consenso l'assunto secondo cui la distinta menzione dei "documenti" (oggetto di produzione) e "mezzi di prova" (oggetto di richiesta di ammissione) (cfr. artt. 184 e 345, questo nel testo anteriore alla legge 14 luglio 1950 n. 581) ed il parallelismo con cui questi strumenti vengono disciplinati (parallelismo presente anche nell'art. 416, comma 3, c.p.c.) sono di fatto determinati "dal particolare meccanismo che la richiesta di prova per documenti comporta: la produzione dell'atto, come fatto che materialmente precede, e necessariamente implica e formalmente esprime, questa richiesta" (così: Cass. 20 gennaio 2003 n. 775 cit.).
5.4. Nè per andare in contrario avviso per legittimare un meno rigoroso impatto delle preclusioni sulla prova documentale vale richiamarsi alle esigenze di particolare celerità e di concentrazione (che con il nuovo rito il legislatore ha voluto soddisfare) per poi dedurne che dette esigenze non sarebbero messe in pericolo dalla produzione ed acquisizione di nuovi documenti in quanto prove già costituite. E' opinione generale che la produzione di nuovi documenti, pur non richiedendo un procedimento di assunzione, può determinare un prolungamento delle attività processuali. Ed invero, al di là del fatto che la produzione di un atto pubblico o di una scrittura privata può determinare giudizi di per sè lunghi e complessi a seguito dei procedimenti per querela di falso o di istanza di verificazione, il richiamo alle esigenze di celerità sembra concretizzare soprattutto un intento meramente evocativo perchè, come è stato autorevolmente notato, ogni volta che consenta ad una parte una acquisizione nel processo di una nuova produzione documentale il giudice non può - in ossequio del diritto di difesa e del principio del contraddittorio - negare alla controparte la possibilità di dedurre i mezzi di prova resisi necessari in relazione ai documenti prodotti, pur se comportanti l'espletamento di una attività istruttoria incompatibile con quelle esigenze di celerità e concentrazione del processo, che invece si vorrebbe non essere intaccati dalla tardiva produzione.
6. Quanto sinora esposto offre le coordinate nel rispetto delle quali deve procedersi per individuare - con una coerenza logica importante una indifferenziata soluzione per ogni tipo di prova - i termini processuali entro i quali è consentito nel rito del lavoro l'ingresso ad istanze istruttorie e, pertanto, anche la produzione di documenti.
6.1. Ed invero, nell'indicato quadro ricostruttivo, il combinato disposto dell'art. 416 comma 3 - che stabilisce tra l'altro che il convenuto deve, come si è già ricordato, indicare "a pena di decadenza" i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed "in particolare modo i documenti che deve contestualmente depositare" (onere probatorio gravante anche sull'attore per il principio di reciprocità fissato dal giudice delle leggi con la decisione 14 gennaio 1977 n. 13; cfr. al riguardo Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353, e fra le altre Cass. 17 aprile 2002 n. 5526 cit.) -e dell'art. 437, comma 2 (proiezione e specificazione delle preclusioni già emergenti dall'art. 416, comma 3, e 420, comma 5 e 7) - che a sua volta esclude l'ammissione di "nuovi mezzi di prova" (nei quali devono annoverarsi anche i documenti: cfr. al riguardo in tali sensi:
cass. 13 dicembre 2000 n. 15716) - induce a fissare il principio di diritto che "l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione del documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi delle vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo)". 6.2. Nel caso in esame il mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, intesi a regolamentare la dinamica processuale in funzione propulsiva, importa l'irreversibilità dell'estinzione del processuale diritto di produrre il documento con l'insuscettibilità di una sua riviviscenza in un successivo grado di giudizio (così: Cass. 20 gennaio 2003 n. 775 cit.).
Ed infatti, l'inosservanza degli oneri correlati al rispetto dei suddetti termini, impedisce il verificarsi di "movimenti a ritroso", perchè le preclusioni si presentano quali conseguenze, di regola definitive, dell'inadempimento di specifiche e ben individuate condotte, che operano sul versante processuale con gli stessi effetti. Conclusione questa che trova decisivo avallo nella considerazione che si è in presenza di un fenomeno per il quale può attagliarsi - in ragione degli interessi coinvolti non disponibili dalle parti processuali (in relazione ai quali si è parlato di "ordine pubblico processuale") - la definizione data dalla dottrina processualistica al termine perentorio, visto "come fatto giuridico strutturalmente autonomo caratterizzato da una propria efficacia di tipo estintivo". Per di più non è suscettibile di alcuna riserva l'ulteriore rilievo, fatto proprio dalla stessa dottrina, che la decadenza produce la perdita, estinzione o consumazione di una facoltà processuale, con esiti di regola irreversibili, perchè il solo strumento tecnico idoneo a rimuovere detti esiti - la c.d. restituzione o remissione in termini - è configurato nel nostro ordinamento se non in determinate ipotesi particolari.
7. Ragioni di completezza argomentativa impongono, infine, una riflessione sull'opinione di quanti patrocinano la non estensione alla produzione documentale delle barriere temporali riguardanti gli altri "mezzi di prova", mettendo in risalto come un sistema rigoroso di preclusioni possa ostacolare la ricerca della "verità materiale", cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento. Ed invero, al di là del pur assorbente rilievo che proprio lo spessore a livello costituzionale dei suddetti diritti impone risposte giudiziarie improntate a celerità - come è attestato significativamente a livello normativo dall'introduzione di ordinanze anticipatorie ex art. 423 c.p.c. cui fa riscontro nella pratica giudiziaria una innegabile incentivazione dei procedimenti cautelari - va rimarcato come la preoccupazione di addivenire a soluzioni distanti dalla realtà fattuale, non sempre esternata (ma di certo costantemente sottesa all'opinione in esame), venga in buona misura ammortizzata dall'attribuzione al giudice d'appello di incisivi poteri d'ufficio in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova ove essi siano "indispensabili ai fini della decisione della causa" (art. 437, comma 2, c.p.c), con un opportuno contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale, "di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti" (cfr. in tali sensi Cass., sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353 cit.; Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2002 n. 761 cit.).
7.1. A ben vedere proprio i poteri di ufficio del giudice del lavoro - che non possono però essere esercitati con riferimento a fatti non allegati dalle parti e non emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (cfr. Cass., sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353 cit.) - segnano in modo accentuato la c.d. "specialità" del rito del lavoro e portano, per altra via, ad evidenziare come si vogliano accreditare a livello normativo forme di tutela (processuale) differenziata delle situazioni soggettive, in ragione di un opportuno adattamento delle regole del rito alla concrete e molteplici situazioni sostanziali implicate nel giudizio, con il consequenziale formarsi di ordinamenti processuali - come quello, appunto, introdotto dalla legge 11 agosto 1973 n. 533(in materia di controversie del lavoro) nonchè quello disegnato dal d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 (in materia di controversie tributarie), ed ancora quello ora regolato dal d. lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 (in materia di controversie di diritto societario) - che, seppure con qualche approssimazione, possono qualificarsi "settoriali", e che trovano peculiari e specifici tratti distintivi - rispetto al processo ordinario ed anche tra loro - proprio per la diversa individuazione del punto di equilibrio tra le esigenze di celerità e quelle di accertamento della verità materiale.
8. Per concludere, il ricorso, alla stregua di quanto sinora detto, va rigettato perchè la sentenza impugnata - con il non dare ingresso alla prova documentale prodotta dagli eredi dell'assicurato stante la sua tardiva esibizione - è pervenuta a conclusioni conformi al diritto anche se con motivazione, che va corretta nel termini innanzi esplicitati nell'esercizio del poteri attribuiti a queste Sezioni Unite ex art. 384, comma 2, c.p.c. Nessuna statuizione può essere presa in relazione alle spese del presente giudizio di Cassazione per la natura della controversia, non essendosi in presenza di una pretesa manifestamente infondata e temeraria (art. 152 disp. att. c.p.c.).
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Così deciso in Roma, il 3 marzo 2005.