Cass., sentenza n. 12037 del 09.08.2003
OMISSIS
Svolgimento del processo
Con ricorso del 10 febbraio 1997 al Pretore di Napoli, L. M., premesso di aver lavorato alle dipendenze della I. S.p.A. dal 19 luglio 1992 con qualifica di tecnico e con mansioni di addetto alla riparazione di apparecchiature elettroniche, stampanti e registratori di cassa, lamentava di essere stato licenziato con lettera del 4 dicembre 1995 a causa della dismissione dell'attività inerente l'assistenza ai registratori di cassa. Sosteneva il ricorrente che il licenziamento era illegittimo sia perché adottato in violazione della procedura di mobilità di cui agli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, sia per insussistenza di giusta causa o giustificato motivo. Chiedeva pertanto la reintegrazione nel posto di lavoro.
La società si costituiva e si opponeva alla domanda.
Il Pretore, con sentenza del 20 maggio 1999, rigettava la domanda. L'appello proposto dal lavoratore veniva respinto dal Tribunale di Napoli con sentenza depositata il 9 agosto 2001.
A sostegno della decisione il Tribunale osservava: che nella specie non era applicabile la procedura di mobilità di cui alla legge n. 223 del 1991 mancando il presupposto del licenziamento di almeno cinque lavoratori nell'arco di 120 giorni, non potendo ricomprendersi nel novero dei licenziamenti le spontanee dimissioni di alcuni lavoratori, ancorché incentivate; che nella specie doveva ritenersi provata l'impossibilità per la società di impiegare il lavoratore licenziato per soppressione del posto di lavoro in altre mansioni equivalenti a quelle in precedenza esercitate, atteso che la società non aveva proceduto ad altre assunzioni e che la copertura delle mansioni in parte rimaste (quali l'assistenza alle stampanti) era stata affidata al personale addetto alla riparazione di computers.
Per la cassazione di tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso sostenuto da due motivi. La I. S.p.A. in liquidazione resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 4 e 5 e 24 della legge n. 223 del 1991, nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, e sostiene che ai fini dell'obbligatorietà della procedura di licenziamento collettivo, devono computarsi, nel conto dei licenziamenti effettuati, tutti gli atti risolutivi del rapporto che non siano imputabili alla libera determinazione del lavoratore ed in particolare le c.d. dimissioni incentivate, che costituiscono una delle offerte tipiche che provengono dalle imprese in occasione di processi di ristrutturazione.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966 nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e lamenta che il Tribunale avrebbe dovuto rilevare che la società non aveva dato la prova della impossibilità di adibire il lavoratore licenziato in altro posto di lavoro con mansioni simili a quelle svolte in precedenza, risultando dall'istruzione probatoria che il lavoratore poteva essere addetto alla riparazioni di stampanti, settore questo rimasto in funzione e redistribuito tra il personale ancora in forza alla società. Lamenta, altresì, che il Tribunale non avrebbe in alcun modo spiegato per quale motivo il M., che pure aveva assolto all'onere di indicazione dell'esistenza in azienda di mansioni compatibili, non poteva essere utilizzato dalla società con mansioni di riparatore di stampanti, benché questi avesse già in precedenza svolto simili mansioni.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, ai fini della sussistenza di un licenziamento collettivo e della applicabilità della relativa normativa, il riferimento testuale dell'art. 24, primo comma, della legge n. 223 del 1991 è ad almeno cinque "licenziamenti" nell'arco di 120 giorni, per cui, di fronte ad una formulazione così precisa, non vi è spazio sul piano lessicale, neppure ricorrendo ad un criterio logico, per una interpretazione che estenda la nozione giuridica di licenziamento fino a ricomprendervi anche atti di risoluzione consensuale o atti di recesso del lavoratore, ancorché sollecitati dal datore di lavoro, solo perché anch'essi in qualche modo ricollegabili alla stessa scelta economico organizzativa che ha portato ai licenziamenti. Infatti nel vigente ordinamento il "licenziamento" costituisce la vicenda finale di un rapporto di lavoro che si concreta in un atto di espulsione del prestatore intimato dal datore, che ne assume unilateralmente l'iniziativa nell'esercizio dei suoi poteri, e che si distingue nettamente da altre forme di risoluzione del rapporto di lavoro, quali la risoluzione consensuale o le dimissioni del lavoratore, nelle quali elemento caratteristico è (anche o solo) la dichiarazione negoziale del lavoratore di interrompere il rapporto. Pertanto le dimissioni di alcuni lavoratori, ancorché agevolate da provvidenze ed incentivi, non possono essere equiparate al licenziamento ai fini del computo dei recessi necessari per l'attivazione della procedura sui licenziamenti collettivi (cfr. Cass. n. 13751 del 2000, Cass. n. 14736 del 2002).
A questo orientamento giurisprudenziale, pienamente condiviso dal Collegio, si è uniformato anche il Tribunale di Napoli, ragione per cui le censure proposte con il primo motivo di ricorso non possono che essere disattese.
Il secondo motivo di ricorso è anch'esso infondato.
E' stato precisato che in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite, secondo insindacabili scelte imprenditoriali, senza che con ciò venga meno l'effettività di tale soppressione (conf. Cass. n. 8396 del 2002, Cass. n. 11241 del 1993, Cass.S.U. n. 7295 del 1986 in motivazione). Costituisce parimenti principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che l'onere della prova relativo all'impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell'ambito dell'organizzazione aziendale - concernendo un fatto negativo - deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso, stabilmente occupati, o il fatto che dopo il licenziamento non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica (Cass. n. 10527 del 1996, Cass. n. 3030 del 1999); detto onere, ha precisato la Corte, deve essere comunque mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sicché esso può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria (Cass. n. 3198 del 1987, Cass. n. 8254 del 1992), con l'ulteriore precisazione che il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di "repechage" (Cass. n. 8396 del 2002, Cass. n. 10559 del 1998, Cass. n. 8254 del 1392).
Nella specie il giudice del gravame ha fatto corretta applicazione di tali principi, pienamente condivisi dal Collegio; il Tribunale, infatti, con motivazione congrua e coerente, sulla base delle risultanze istruttorie, ha rilevato che nel caso di specie l'attività di assistenza tecnica ai registratori di cassa è stata dismessa dalla società, che successivamente al licenziamento del M. non si è proceduto ad altra assunzione e che la copertura delle mansioni rimaste (quali l'assistenza alle stampanti) è stata affidata al personale addetto alla riparazione dei computers senza alcun aumento dei dipendenti addetti a tale settore; da queste circostanze il giudice del gravame ha tratto il convincimento dell'assolvimento da parte della società dell'onere di provare la impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la sua qualifica, visto che la pretesa del M. di essere utilizzato per l'assistenza alle stampanti si è dimostrata incompatibile con la insindacabile scelta aziendale di affidare tale settore al personale già addetto alla riparazione dei computers.
Ne consegue che le censure che il ricorrente muove alla sentenza impugnata, sia per violazione della legge n. 604 del 1966 che per vizi di motivazione, sono manifestamente infondate.
Per tutte le considerazioni sopra svolte il ricorso, dunque, deve essere respinto. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 11,15 oltre ad euro millecinquecento per onorari.
Così deciso in Roma il 19 marzo 2003.