Svolgimento del processo
Il 9 luglio 1996 il presidente del Tribunale di Ancona, accogliendo un ricorso proposto dal dr. F.F., ingiunse con decreto alla Società Cooperativa Villaggio Le G., in liquidazione coatta amministrativa (in prosieguo indicata solo come Cooperativa Le G.), ed al Ministero del Lavoro di corrispondere al ricorrente la somma di L. 570.615.750, quale corrispettivo per l'attività svolta dal ricorrente in veste di commissario liquidatore fino al momento in cui era stato revocato da tale carica.
Gli ingiunti proposero opposizione deducendo la carenza di giurisdizione e l'incompetenza funzionale dell'autorità giudiziaria adita, oltre a contestare nel merito la fondatezza della pretesa del ricorrente.
Il dr. F., costituitosi, eccepì il difetto di legittimazione del dr. P.G.M., che aveva proposto l'opposizione nella dichiarata qualità di nuovo commissario liquidatore della Cooperativa Le G., perchè il decreto ministeriale di revoca dei precedenti liquidatori era stato impugnato e poi annullato dal giudice amministrativo onde la successiva nomina del dr. P. ne era stata retroattivamente travolta.
Il tribunale, con sentenza dell'8 aprile 2002, accolse l'opposizione, revocando perciò il decreto ingiuntivo, e tale decisione fu poi confermata dalla Corte d'appello di Ancona con sentenza emessa il 4 giugno 2004.
La corte territoriale osservò, quanto all'eccepito difetto di legittimazione del commissario liquidatore della cooperativa opponente, che la successiva emanazione di un nuovo decreto di revoca dei precedenti liquidatori e di nomina del dr. P. erano valse a rimuovere, con effetto retroattivo, il vizio formale da cui il primo decreto risultava affetto e che, comunque, l'annullamento di quel primo decreto non implicava la perdita di validità ed efficacia degli atti medio tempore compiuti dal nuovo liquidatore. Sul tema della giurisdizione la corte anconetana considerò che, a dispetto di qualche ambiguità terminologica, il tribunale non aveva affermato la carenza di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria in ordine alla questione controversa, bensì l'inammissibilità della domanda avanzata dal dr. F. col ricorso per ingiunzione. Era stato infatti riconosciuto il diritto del commissario liquidatore di far valere le proprie eventuali ragioni dinanzi al Giudice ordinario, ma solo mediante opposizione avverso il provvedimento di liquidazione del compenso, emesso dalla competente autorità amministrativa. In ogni caso - affermò ancora la corte anconetana - non era condivisibile la tesi del dr. F. secondo cui detto compenso avrebbe dovuto esser determinato sulla base delle tariffe professionali, dovendo invece trovare applicazione analogica i criteri dettati dalla L. Fall., art. 39, per il compenso spettante al curatore del fallimento. Ulteriori domande dell'appellante furono dichiarate inammissibili perchè proposte solo in secondo grado.
Il dr. F. ricorre ora per cassazione avverso tale sentenza, formulando sei motivi di doglianza, illustrati poi anche con memoria.
Resistono con separati controricorsi la Cooperativa Le G. ed il Ministero del Lavoro.
Motivi della decisione
1. Il ricorso, come accennato, consta di sei motivi.
1.1. Il ricorrente, in primo luogo, censura l'impugnata sentenza per avere affermato che il commissario liquidatore può ricorrere all'autorità giudiziaria ordinaria solo dopo l'espletamento di un precedente procedimento amministrativo e solo in via d'impugnazione del provvedimento in quella sede emesso.
Così ragionando - sostiene il ricorrente - si degrada nella fase iniziale la posizione del commissario liquidatore a mero interesse legittimo, ed invece, essendo egli sin dall'inizio titolare di un vero e proprio diritto soggettivo al compenso, deve essergli riconosciuta la possibilità di adire immediatamente l'autorità giudiziaria per far valere tale diritto, che resterebbe altrimenti inattuabile ove l'amministrazione omettesse di provvedere.
1.2. La prospettazione del secondo motivo è alternativa al primo ed è volta a censurare il punto dell'impugnata sentenza in cui si afferma esservi stata, da parte del primo giudice, una pronuncia d'inammissibilità della domanda e non già una decisione sulla giurisdizione. Secondo il ricorrente, avendo la corte d'appello riconosciuto la giurisdizione negata dal tribunale, essa avrebbe dovuto rimettere gli atti al primo Giudice e non pronunciare nel merito, come invece ha fatto.
1.3. Il terzo motivo di ricorso si riferisce al punto dell'impugnata decisione concernete gli effetti del sopravenuto annullamento dell'atto amministrativo con cui il dr. F. (unitamente ad un altro professionista) era stato revocato dalla carica di commissario liquidatore. Il ricorrente insiste nel sostenere che tale annullamento ha travolto la consequenziale nomina del nuovo commissario liquidatore, dr. P., e che, pertanto, quest'ultimo era privo di legittimazione a proporre opposizione a decreto ingiuntivo in nome e per conto della Cooperativa Le G..
1.4. Col quarto motivo di ricorso, sottolineando le differenze tra fallimento e liquidazione coatta amministrativa, si nega fondamento all'applicazione analogica della L. Fall., art. 39, in materia di determinazione del compenso spettante al commissario liquidatore. Compenso che, viceversa, il ricorrente ritiene debba essere determinato alla stregua dei criteri fissati dalla tariffa professionale dei ragionieri.
1.5. Il quinto e sesto motivo di ricorso censurano la declaratoria d'inammissibilità delle domande di liquidazione equitativa del compenso e di risarcimento dei danni per ritardo nel pagamento, che a parere del ricorrente dovevano considerarsi comprese, o comunque implicite, nell'originario ricorso per ingiunzione.
2. Nei termini sopra brevemente riferiti, il ricorso è da considerare inammissibile.
2.1. Indubbiamente inammissibile è la doglianza in tema di giurisdizione. Contrariamente a quanto il ricorrente prospetta, infatti, l'impugnata sentenza non contiene alcuna pronuncia declinatoria della giurisdizione del Giudice ordinario, che anzi viene confermata (e nel medesimo senso la corte d'appello interpreta la pronuncia di primo grado, pur riscontrando in essa qualche ambiguità terminologica); nè ciò è smentito dall'avere la stessa corte d'appello individuato una condizione di proponibilità dell'azione, consistente nella preventiva emanazione del provvedimento ministeriale di liquidazione del compenso avverso il quale l'interessato può ricorrere al tribunale a norma della L. Fall., art. 213, comma 2, perchè ciò attiene al modo ed ai tempi di esercizio della tutela giurisdizionale, non già all'individuazione dell'organo fornito di giurisdizione.
2.2. L'inammissibilità delle ulteriori censure contenute nel ricorso discende, invece, dal fatto che l'intera gamma delle questioni ivi prospettate risulta coperta dal precedente giudicato formatosi a seguito della sentenza di questa corte n. 14546 del 30 luglio 2004, la quale, definitivamente statuendo in un una diversa causa promossa dal dr. F. contro la Cooperativa Le G. ed il Ministero del Lavoro per far accertare che il compenso a lui spettante quale (revocato) commissario liquidatore non avrebbe dovuto esser liquidato sulla base dei criteri indicati nella L. Fall., citato art. 39, bensì alla stregua della tariffa professionale di riferimento, ha affermato: 1) che il giudicato amministrativo riguardante l'annullamento della revoce, dalla carica dello stesso dr. F. e di altro professionista non è stato eseguito e quindi non vale ad escludere la capacità processuale del commissario liquidatore dr. P., nominato in loro vece; 2) che il compenso spettante al dr. F. per l'attività da lui prestata quale commissario liquidatore deve essere determinato non già sulla scorta della tariffa professionale, e neppure può esserlo in via equitativa, ma va invece computato secondo i criteri indicati dalla L. Fall., art. 39, (e dei decreti ministeriali ivi richiamati), analogicamente applicabili; 3) che, nel corso di quel giudizio, la corte d'appello aveva rilevato la mancanza di contestazioni, da parte del dr. F., in ordine alla correttezza e congruità della liquidazione del compenso operata dal competete ministero alla stregua dei criteri dettati dal citato art. 39.
Aggiungasi che già con la sentenza del 19 aprile 2001, n. 5769, sempre tra le medesime parti, questa corte, ponendo termine al giudizio di opposizione al piano di riparto della procedura di liquidazione della Cooperativa Le G. introdotto dal dr. F. a norma della L. Fall., art. 213, aveva ritenuto che l'annullamento della nomina del dr. P. in sostituzione dei precedenti liquidatori non avesse inciso sulla validità delle attività processuali svolte dal medesimo dr. P. in nome della cooperativa, essendo egli stato poi rinominato con effetti retroattivi, e che il compenso spettante al cessato liquidatore dovesse esser determinato in base ai criteri fissati dall'art. 39, della citata legge.
E' di tutta evidenza che il dictum di tali sentenze - sia per quel che riguarda la legittimazione del nuovo commissario liquidatore della Cooperativa Le G. ad agire (e quindi a proporre opposizione a decreto ingiuntivo) in nome della società, sia per quel che concerne la correttezza dei criteri della liquidazione del compenso già operata in favore del dr. F. e l'infondatezza di qualsiasi ulteriore sua pretesa basata su criteri di liquidazione diversi - è preclusivo di ogni ulteriore discussione in ordine a quel che forma oggetto della presente causa.
Nè ha pregio l'obiezione del ricorrente secondo cui egli avrebbe inteso avvalersi della facoltà di frazionare la propria pretesa in più giudizi diversi, i quali dunque non avrebbero identità di oggetto. A parte il rilievo che la possibilità stessa di operare legittimamente un siffatto frazionamento dell'azione giudiziaria è stata di recente esclusa dalle sezioni unite di questa corte (sez. un. 15 novembre 2007, n. 23726), occorre considerare che, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico - come nella specie - ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (cfr. in tal senso, da ultimo, Cass. 8 gennaio 2007, n. 67).
2.2.1. Il ricorrente ha però anche sostenuto: a) che della citata sentenza n. 14546/04 di questa corte non si potrebbe qui tener conto, agli effetti del giudicato, perchè essa non è stata mai ritualmente prodotta agli atti del presente giudizio, come prescritto dall'art. 372 c.p.c.; b) che osterebbe all'influenza del giudicato nel presente giudizio il fatto che, in primo grado, un'eccezione di litispendenza, rispetto al diverso giudizio poi sfociato nella citata sentenza n. 14546/04 di questa corte, era stata rigettata e che avverso tale decisione non era stato a suo tempo proposto alcun gravame.
Nessuna di tali obiezioni è condivisibile.
2.2.2. La definitività della decisione sulla litispendenza non preclude in alcun modo la valutazione sull'influenza del giudicato dipendente dall'esito di uno dei due giudizi in ordine ai quali la litispendenza era stata eccepita.
E' vero, infatti, che la disciplina dettata dal codice di rito in tema di litispendenza ha anch'essa la finalità ultima di evitare, per quanto possibile, il rischio di un eventuale futuro conflitto di giudicati, onde l'accertamento dei due fenomeni - la litispendenza, prima, e la preclusione da giudicato, poi - presenta indubbi punti di contatto. Questo però non significa che, in termini giuridici, una decisione negativa sulla litispendenza equivalga ad una decisione che esclude ogni possibile successiva preclusione da giudicato, trattandosi comunque pur sempre di questioni diverse: l'una che riposa sul piano processuale ed è da risolvere alla stregua delle domande proposte dalle parti, e l'altra che riguarda la regola sostanziale da applicare nella decisione e va risolta in base a quanto effettivamente statuito nella precedente pronuncia giudiziale.
2.2.3. Quanto alla mancata produzione della sentenza su cui l'eccezione di giudicato si fonda, giova anzitutto ricordare come, nella più recente giurisprudenza di questa corte, sia stato affermato il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. Il giudicato non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è a questi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto. Esso quindi partecipa della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto, ed il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma mira ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, e perciò corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche attraverso la stabilità delle decisioni. Garanzia di stabilità che, essendo anche collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata dei giudizi, impedisce di accedere a soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive e, perciò, non trova ostacolo neppure nel divieto di produzione di nuovi documenti, posto dall'art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato (si veda sez. un., 16 giugno 2006, n. 13916, che ha confermato l'orientamento già manifestato da Cass. 11 gennaio 2006, n. 360, superando invece quello precedentemente espresso, tra le altre, da Cass. 27 gennaio 2006, n. 1760, da Cass. 23 luglio 2004, n. 13854, e da Cass. 8 gennaio 2003, n. 11731).
L'attuazione di siffatto condivisibile principio non può ovviamente prescindere dal rispetto delle garanzie del contraddittorio. Si è perciò anche precisato che la documentazione del precedente giudicato, in quanto destinata a provare la sopravvenuta formazione di una regula iuris alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto, attiene ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione e costituisce quindi una documentazione riguardante l'ammissibilità del ricorso, la cui produzione può aver luogo unitamente al ricorso per cassazione, se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per l'impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva alla notifica del ricorso, fino all'udienza di discussione prima dell'inizio della relazione, fatta salva l'assegnazione alle parti un opportuno termine per il deposito in cancelleria di eventuali osservazioni qualora la produzione abbia luogo oltre il termine stabilito dall'art. 378 c.p.c., per il deposito delle memorie (si veda ancora, sez. un. n. 13916/06, cit).
Tali indicazioni meritano senz'altro di essere confermate, quando il giudicato sopravenuto da documentare si sia formato in base ad una sentenza di merito o quando, comunque, l'esatta individuazione degli estremi del giudicato e la sua interpretazione non possano aver luogo senza aver preso visione di detta sentenza di merito, la cui materiale acquisizione al giudizio di legittimità si appalesa perciò indispensabile e presuppone l'assolvimento di un onere di produzione ad opera della parte interessata.
La già rilevata necessità di non indulgere a vuoti formalismi, soprattutto quando ciò rischi di compromettere la salvaguardia della funzione stessa del processo mettendo a repentaglio la stabilità delle decisioni, induce però ad una risposta diversa ove il giudicato si sia formato - e sia compiutamente individuabile - a seguito di una pronuncia della stessa Corte di cassazione, già nota alle parti, la cui materiale acquisizione al giudizio di legittimità in corso non risponde ad alcuna reale esigenza nè delle parti stesse nè della corte.
Non vale obiettare che di una siffatta precedente pronuncia, se non ritualmente acquisita al processo, il giudice di legittimità non potrebbe tener conto perchè anch'eglì è vincolato dal divieto di far uso della propria scienza privata. La conoscenza dei propri precedenti da parte della Corte di cassazione non è infatti riconducibile alla scienza privata del giudicante. Quei precedenti, lungi dal doverli ignorare, la corte è comunque tenuta a conoscerli per ragioni che nulla hanno a che fare con la sfera privata dei componenti il collegio ma che si ricollegano alla stessa funzione istituzionale della cassazione: quella funzione nomofilattica assegnatale dall'art. 65, dell'ordinamento giudiziario, per facilitare il cui assolvimento opera l'ufficio del massimario e sono predisposti presso la corte stessa archivi anche elettronici.
Nè appare condivisibile l'assunto - pur in passato fatto proprio da queste sezioni unite - secondo cui il dovere di conoscenza della corte riguarda le sentenze intese come precedenti giurisprudenziali, mentre non si riferirebbe alle sentenze nella loro veste giuridica di strumenti di documentazione di fatti e vicende concrete, in quanto tali assimilabili a tutti gli altri documenti processuali e soggetti al relativo regime (sez. un. 6 maggio 2000, n. 295). Una siffatta distinzione - che poteva più agevolmente giustificarsi in un contesto interpretativo in cui ancora si dubitava della stessa possibilità di rilevare d'ufficio il giudicato esterno e si inclinava a considerarlo piuttosto quale un dato di fatto che come regula iuris del caso concreto - appare scarsamente plausibile nel contesto dei principi inaugurati dalla nota pronuncia delle sezioni unite n. 226 del 2001, che ha ricondotto invece il giudicato nella sfera delle questioni di diritto, ha sottolineato la natura pubblicistica dell'interesse al suo rispetto ed ha perciò stesso assimilato l'accertamento di esso all'individuazione della norma di diritto applicabile al caso in esame. In questo quadro appare inamissibilmente artificioso sostenere che la corte debba conoscere un proprio precedente provvedimento per preservare l'uniformità della giurisprudenza in via generale, ma che, al medesimo tempo, dimentica delle esigenze di stabilità e di non contraddittorietà delle decisioni, essa debba ignorare la regula iuris che quello stesso provvedimento già contiene con preciso riferimento alla res iudicanda sottoposta al suo esame.
Per tali ragioni è dunque da condividere il più re-cente orientamento, del pari manifestatosi nella giurisprudenza di questa corte, secondo cui, ove il giudicato esterno si sia formato a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione, i poteri cognitivi del giudice di legittimità possono pervenire alla cognizione della precedente pronuncia anche mediante quell'attività d'istituto (relazioni preliminari ai ricorsi e massime ufficiali) che costituisce corredo della ricerca del collegio giudicante, in tal senso deponendo non solo il principio generale che impone di prevenire il contrasto tra giudicati ed il divieto del ne bis in idem, ma anche il rilievo secondo cui la conoscenza dei propri precedenti costituisce un dovere istituzionale della corte (si veda Cass. 24 gennaio 2007, n. 1564, le cui affermazioni erano state per certi aspetti già anticipate da sez. un. 11 aprile 1981, n. 2121).
Nè occorre chiedersi, nel presente caso, se il rilievo d'ufficio del giudicato desunto da un precedente della stessa corte implichi che, avvalendosi dei poteri riconosciutile dall'art. 384 c.p.c., comma 3, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, la corte debba assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito in cancelleria di eventuali osservazioni al riguardo. Non solo, infatti, il citato D.Lgs. n. 40, non è applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame, ma va considerato che entrambe le parti hanno già ampiamente discusso della questione nelle loro difese ed ovviamente hanno piena conoscenza del tenore delle precedenti sentenze emesse da questa corte nei loro confronti.
3. Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso, cui deve pervenirsi sulla base delle considerazioni dianzi esposte, fa seguito la condanna del ricorrente al rimborso, in favore delle controparti, delle spese del giudizio di legittimità, che vengono liquidate, quanto al Ministero del Lavoro, in Euro 10.000,00 (diecimila) per onorari, oltre alle spese prenotate a debito, e, quanto alla Cooperativa Le G., in Euro 12.000,00 (dodicimila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La corte, pronunciando a sezioni unite, dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, in favore del Ministero del Lavoro, in Euro 10.000,00 (diecimila) per onorari, oltre a quelle prenotate a debito, ed, in favore della Società Cooperativa Villaggio Le G., in liquidazione coatta amministrativa, in Euro 12.000,00 (dodicimila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2007