Cassazione sezione lavoro, sentenza n. 4419 del 07.04.2000
Svolgimento del processo
Omissis
Con sentenza in data 26 settembre-10 ottobre 1997, il Tribunale - Sezione del lavoro - di Bolzano rigettava l'appello proposto dall'INPS nei confronti del sig. W. S. (ricorrente in primo grado) avverso la sentenza n. 135 del 1996 del pretore - giudice del lavoro della stessa sede che aveva affermato il diritto del ricorrente a percepire l'assegno per il nucleo familiare come padre che aveva riconosciuto la figlia sebbene questa convivesse con la madre (che pure la aveva riconosciuta).
Per la cassazione di questa sentenza ricorre l'INPS con unico motivo.
Resiste lo S. con controricorso.
Motivi della decisione
Col motivo di annullamento il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 2, del D.L. 13 marzo 1988, n. 69, convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Sostiene che erroneamente il Tribunale ha escluso la "convivenza" dai requisiti essenziali per il riconoscimento dell'assegno per il nucleo familiare, il cui regime si differenzia da quello pregresso degli assegni familiari per l'accentuazione della finalità di redistribuzione del reddito in favore delle famiglie effettivamente bisognose sul piano finanziario, tanto è vero che l'assegno compete in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare. Pertanto, Con riferimento alla disposizione dell'art. 2, comma sesto, della legge n. 153 del 1988 cit. (Il nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato e dai figli ed equiparati, ai sensi dell'art. 38 del D.P.R. 26 aprile 1957, n. 818...) e in presenza di genitori naturali non conviventi la cui prole vive con la madre soltanto, esattamente l'Istituto aveva ritenuto che l'assegno (quale strumento di tutela delle famiglie effettivamente bisognose) dovesse essere ricollegato alla convivenza sia ai fini della legittimazione a richiederlo, sia ai fini della determinazione del numero dei componenti da computare nel nucleo familiare sia ai fini della determinazione del reddito del nucleo medesimo.
Il riferimento, operato dal legislatore, alla disciplina degli assegni familiari non avrebbe carattere generale, ma sarebbe solo attinente a situazioni compatibili ed omogenee, e non potrebbe valere, quindi, quando la disciplina previgente subordinava l'erogazione degli assegni familiari alla vivenza a carico.
Erroneamente il Tribunale avrebbe poi ritenuto inapplicabili l'art. 317-bis c.c. e art. 211 legge n. 151 del 1975, mentre dovrebbe avere giusto rilievo la circostanza che l'esercizio della potestà spetta al genitore con cui il figlio naturale, riconosciuto da entrambi, conviva.
Infine, l'art. 2, comma 8-bis, della legge n. 153 del 1988 cit. prevede che per lo stesso nucleo familiare non può essere concesso più di un assegno e la soluzione accolta dal Tribunale comporterebbe il venir meno di un criterio certo per il pagamento in situazioni come quella oggetto della presente controversia.
La disposizione di cui all'art. 211 della legge n. 151 del 1975, nel prevedere il diritto agli assegni familiari per il coniuge separato affidatario della prole, ha attribuito rilievo e tutela giuridica alla convivenza, e il riconoscimento, da parte dell'Istituto di previdenza, di una consimile situazione previdenziale (con accertamento del numero dei componenti del nucleo e dei redditi dagli stessi dichiarati) vale a tutelare il genitore cui maggiormente fa carico l'educazione ed il mantenimento del minore, così evitandosi controversie o duplicazioni di pagamento.
Per contro, la soluzione accolta dal Tribunale condurrebbe a non individuare quale possa essere il criterio discretivo da adottare al fine del riconoscimento del genitore cui debba essere attribuita la prestazione.
Il motivo è infondato.
Quanto alla dedotta necessità di annoverare la convivenza tra i requisiti indefettibili per l'attribuzione dell'assegno per il nucleo familiare, rileva la Corte come esattamente il Tribunale abbia posto in rilievo che l'art. 2, comma sesto, della legge 13 maggio 1988, n. 153, di conversione del D.L. 13 marzo 1988, n. 69, definisce il nucleo familiare come composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli (compresi quelli naturali legalmente riconosciuti) e prevede un aumento di reddito massimo (ai fini del diritto all'assegno per il nucleo familiare) se gli aventi diritto (di cui al primo comma) si trovano in condizione di celibe o nubile; ha inoltre osservato che la sussistenza del nucleo familiare non presuppone il coniugio ed include l'ipotesi di figli naturali riconosciuti dai genitori (ovviamente) non coniugati tra loro e che il componente del nucleo familiare cui spetta l'assegno, non indicato dalla legge n. 153 del 1988, deve essere individuato alla stregua delle norme contenute nel T.U. sugli assegni familiari approvato con D.P.R. n. 797 del 1955 (cui appunto rimanda lo stesso art. 2, comma terzo, della stessa legge del 1988).
Il T.U. cit. riconosce legittimato alla riscossione degli assegni familiari per i figli, quale capo-famiglia, il padre, ovvero la madre vedova o nubile con prole non riconosciuta dal padre; ai figli legittimi equipara, poi, quelli naturali legalmente riconosciuti. Peraltro, ha affermato il giudice di appello, non è previsto il requisito della convivenza, ma solo la circostanza che il capo famiglia provveda abitualmente al mantenimento dei figli il che è oggetto di presunzione assoluta in caso di convivenza dovendosi, altrimenti, provare la vivenza a carico.
Inoltre, dalla disposizione secondo cui la madre nubile è riconosciuta quale capo-famiglia se la prole non è riconosciuta dal padre dovrebbe desumersi, secondo il giudice di appello, che, in caso di riconoscimento anche da parte del padre naturale, questi debba essere considerato capo famiglia ai fini della corresponsione degli assegni.
Osserva la Corte, a proposito di quest'ultima considerazione, che già nel vigore del Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari di cui al D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797 (come noto, tale disciplina è rimasta in vigore anche dopo l'entrata in vigore del d.l. 13 marzo 1988, n. 69, convertito con modificazioni nella legge 13 maggio 1988, n. 151, per talune categorie di assicurati come i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori cui gli assegni familiari sono stati estesi con particolari disposizioni di legge, i coltivatori diretti, mezzadri, coloni, compartecipanti familiari e piccoli coloni, i pensionati delle gestioni speciali lavoratori autonomi, e particolari categorie di marinai imbarcati) la convivenza assumeva rilievo solo perché da essa derivava la presunzione della vivenza a carico del capo famiglia dei figli e delle persone equiparate, mentre in mancanza di convivenza la prova della vivenza a carico poteva essere fornita anche con atto notorio ex art. 5, comma secondo (introdotto con l'art. 2 legge 17 ottobre 1961, n. 1038), T.U. cit.. Era dunque la vivenza a carico (non già la convivenza) che, vista dalla parte dei soggetti per i quali era apprestata la tutela, veniva a concretizzare lo stato di bisogno del lavoratore dipendente assicurato (che al sostentamento di tali soggetti componenti del suo nucleo familiare deve provvedere, appunto come capofamiglia) e cioè l'evento protetto della particolare tutela assicurativa.
Ma, come ebbe modo di osservare la dottrina per gli assegni familiari, la stessa nozione di capo famiglia era concetto che, lungi dal connotare uno status ben individuato, vale a dire una figura aprioristicamente individuabile in sé prima della verifica delle altre condizioni per l'erogazione degli assegni, era strettamente correlata proprio alla situazione intersoggettiva di prevalente connotazione economica della vivenza a carico. Infatti, l'art. 3 T.U. cit., dopo avere indicato nel padre il capofamiglia, riconosceva di volta in volta la stessa qualifica ad altri componenti del nucleo familiare, per il solo dato fattuale della loro impossibilità di provvedere al mantenimento dei familiari tutelati.
Si è così parlato di una ambulatorietà della qualifica di capo famiglia, riconosciuta progressivamente a soggetti in diversa posizione familiare (la madre vedova o nubile con prole non riconosciuta dal padre, o separata o abbandonata dal marito e con a carico i figli, ecc.; i prestatori di lavoro che abbiano a carico fratelli o sorelle o nipoti in ragione di particolari eventi riguardanti il padre; ecc.) aventi, tuttavia, il dato comune della capacità, attraverso (in genere) lo svolgimento di una attività di lavoro dipendente, di assumersi il carico dei familiari per i quali gli assegni vengono corrisposti.
Conclusivamente, nel sistema del T.U. sugli assegni familiari, la convivenza non costituiva affatto un requisito necessario per il diritto a quel particolare trattamento assicurativo.
La legge n. 153 del 1988 cit., introducendo l'assegno per il nucleo familiare ha configurato un istituto sensibilmente diverso da quello degli assegni familiari e relative maggiorazioni, in quanto ha teso a realizzare, anziché una integrazione economica della retribuzione del lavoratore capo famiglia considerata inadeguata in via presuntiva per la sola esistenza del carico familiare, una integrazione del reddito del nucleo familiare, pur corrisposta non in favore dei familiari singolarmente considerati come beneficiari, ma in favore del nucleo familiare complessivamente considerato e in relazione ad un accertamento in concreto del reale bisogno economico della famiglia, riferito al rapporto tra il numero dei componenti il nucleo familiare e l'ammontare del reddito complessivo dello stesso.
Nel nuovo sistema, secondo autorevole dottrina, il nucleo familiare deve essere individuato in relazione al soggetto richiedente l'assegno e di tale nucleo fanno indubbiamente parte il padre e i figli ed equiparati ai sensi dell'art. 38 del D.P.R. 26 aprile 1957, n. 818 (e tra essi i figli naturali legalmente riconosciuti).
Infatti, tra le norme del T.U. sugli assegni familiari di cui al D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, sopravvissute alla riforma, rientra sicuramente l'art. 1 che individuava i soggetti per i quali gli assegni familiari spettavano. Sotto un profilo dogmatico può discutersi se, trattandosi di assegno per il nucleo familiare, possa parlarsi di titolarità di esso in capo (nell'ipotesi ora in esame) al padre o se costui non sia piuttosto il soggetto legittimato alla riscossione e il titolare dell'azione nelle controversie amministrative o giudiziarie eventuali (art. 57 T.U. cit.).
Resta, comunque, che i soggetti in relazione ai quali il nuovo trattamento viene riconosciuto sono qualificati dalla loro appartenenza al nucleo familiare, anche se, come riconosciuto dalla dottrina attenta al nuovo istituto, non sono conviventi e non sono a carico del richiedente per avere redditi propri, essendo rilevante, ai fini della percezione della prestazione, il reddito familiare complessivamente considerato.
Del tutto estranee alla prestazione dell'assegno per il nucleo familiare sono, conseguentemente, anche la posizione di capo famiglia e la c.d. vivenza a carico.
Vero è, in astratto, che la relazione parentale tra la figlia naturale riconosciuta ed i genitori (questi non legati tra loro da coniugio e, quindi, non facenti parte dello stesso nucleo familiare) potrebbe astrattamente condurre alla identificazione di due nuclei familiari (agli effetti del trattamento in questione) dei quali la figlia verrebbe a far parte contemporaneamente, ma la apparente anomalia trova una sua composizione nel divieto di cumulo di prestazioni sancito dall'art. 2, comma 8-bis (introdotto in sede di conversione) del D.L. n. 69 del 1988 cit. Dispone tale norma che per lo sesso nucleo familiare non può essere concesso più di un assegno e che per i componenti il nucleo familiare cui l'assegno è corrisposto, l'assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante. La seconda disposizione opera, dunque, nel senso che, qualora per la figlia, quale componente del nucleo familiare cui l'assegno è corrisposto, dovesse prospettarsi in astratto la corresponsione di analogo assegno nel nucleo facente capo all'altro genitore, opererebbe automaticamente la preclusione per uno dei due trattamenti a lei riferibili.
Le considerazioni che precedono portano, infine, ad escludere qualsiasi rilevanza, ai fini dell'assegno per il nucleo familiare, delle disposizioni regolanti l'esercizio della potestà genitoriale, l'affidamento della prole e l'attribuzione degli assegni familiari secondo la disciplina previgente.
A tale riguardo deve, pertanto, essere, in linea di massima, condiviso il rilievo del Tribunale circa l'ininfluenza ai fini della decisione della disposizione di cui all'art. 317-bis c.c., secondo cui tra genitori che abbiano riconosciuto un figlio naturale, l'esercizio della potestà spetta al genitore che con esso conviva, trattandosi di norma speciale non incidente sull'obbligo di mantenimento; del pari ininfluente sarebbe il disposto dell'art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151 secondo cui il coniuge affidatario dei figli ha diritto in ogni caso agli assegni familiari per gli stessi anche se di essi sia titolare l'altro coniuge, trattandosi di fattispecie non comparabile con quella concreta oggetto della presente controversia e di disciplina non suscettibile di interpretazione analogica.
Infine, è opportuno sottolineare che proprio per la considerazione, pure svolta dalla dottrina, che l'assegno per il nucleo familiare vuole realizzare la tutela dal bisogno secondo il moderno concetto della sicurezza sociale, tendente a garantire le esigenze minime nei confronti di collettività più o meno estese, a seconda delle scelte politiche, con ricorso più o meno rilevante alla solidarietà sociale, ad assicurare, inoltre, ai soggetti componenti il nucleo, una esistenza libera dal bisogno, e a tutelare, altresì, l'interesse superiore familiare all'allevamento della prole (art. 31 Cost.), la soluzione accolta evita che, nell'ipotesi in cui la madre naturale con la quale la figlia conviva non abbia diritto alla percezione dell'assegno in quanto non lavoratrice dipendente (in servizio o in pensione), venga - sotto il profilo sostanziale - pregiudicata anche la posizione della figlia naturale riconosciuta da entrambi i genitori per il solo fatto di non convivere con il padre (peraltro egualmente tenuto al suo mantenimento ed alla sua educazione: art. 261 c.c.) lavoratore dipendente (in servizio o in pensione).
Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono distratte in favore dell'avv. Giampaolo Petti che ne ha fatto motivata richiesta.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare a controparte le spese in L.17.000, oltre L. 2.500.000 per onorari, con distrazione in favore dell'avv. G.P..
Così deciso in Roma, addì 24 novembre 1999.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 7 APRILE 2000.