Secondo la sentenza in commento, nel rito del lavoro, è corretto l'operato del giudice che, nell'ambito di una controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se veniva rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall'art. 421 c.p.c., e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un orario a tempo pieno.
Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 1863 del 28.01.2010
OMISSIS
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. M.M. chiede l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello di Bologna, pubblicata il 27 luglio 2005, che ha respinto l'appello contro la decisione con la quale il Tribunale di Ferrara aveva accertato che tra la ricorrente in primo grado B. M. e la M. era intercorso un rapporto di lavoro di natura subordinata e condannato la seconda a corrispondere alla lavoratrice la somma di 31.587,02 Euro per differenze retributive e TFR, oltre accessori.
2. Il ricorso è articolato in sei motivi e si conclude con una richiesta principale di decisione nel merito di rigetto della domanda della B. ed una subordinata di cassazione con rinvio ad altro giudice.
3. La B. ha depositato un controricorso chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto dell'impugnazione e la condanna della M. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. 4. La M. ha depositato una memoria.
5. Con il primo motivo si denunzia la nullità della sentenza e la violazione e falsa applicazione degli artt. 325, 326, 327, 358 e 434 c.p.c. nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. La Corte avrebbe errato nel dichiarare inammissibili i motivi di appello aggiunti con un secondo atto di impugnazione.
6. La decisione di primo grado fu notificata il 9 ottobre 2002 personalmente alla M., che propose appello con ricorso depositato il 24 ottobre 2002, quindi entro il termine di trenta giorni. L'appello consta di un unico motivo. La M. ha poi depositato un altro atto, denominato "comparsa di costituzione di nuovo procuratore nell'interesse della M.", con il quale ha formulato tre motivi di gravame, il primo consistente nella riproposizione, con articolazione di argomenti nuova e più ampia della doglianza già proposta, il secondo ed il terzo contenenti censure del tutto nuove. Questo secondo atto è stato depositato il 19 aprile 2005. All'udienza del 21 aprile 2005 il difensore dell'appellata ha eccepito la inammissibilità della seconda impugnazione perchè contenente argomentazioni nuove e perchè supportata dalla produzione di documenti mai in precedenza prodotti.
7. La Corte d'appello ha esaminato e rigettato il motivo di gravame contenuto nel primo atto di impugnazione, mentre ha dichiarato inammissibili i motivi contenuti nel secondo atto "sia che li si qualifichi come motivi aggiunti sia che li si consideri come un vero e proprio nuovo appello". A fondamento della sua determinazione ha richiamato la giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di consumazione del diritto all'impugnazione.
8. Negli ultimi sviluppi della giurisprudenza di legittimità la Corte di cassazione ha ribadito che "Allorquando il diritto di impugnazione sia stato validamente esercitato, il principio di consumazione dell'impugnazione esclude che possa essere proposto un secondo atto di appello, per motivi diversi da quelli dedotti con il primo gravame, ancorchè la seconda impugnazione risulti tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima, essendosi esaurito, con la proposizione del ricorso, il diritto di impugnazione (fattispecie relativa a controversia agraria)" (Sez. 3, sentenza n. 11870 del 22/05/2007 (Rv. 597651).
9. La Sezione lavoro, occupandosi peraltro del ricorso per cassazione, ha affermato (sentenza n. 21702 del 14/08/2008 (Rv.
604954): "L'art 387 cod. proc. civ. preclude la riproposizione del ricorso per cassazione nel caso in cui il primo ricorso risulti affetto da vizi che ne comportino l'inammissibilità o l'improcedibiltà, e sempre che questa sia stata già dichiarata. Ne consegue che non si verifica consumazione dell'impugnazione qualora, dopo un primo ricorso depositato nel termine di legge, venga proposto un secondo ricorso prima che sia pronunciata l'improcedibilità del precedente e detta riproposizione sia avvenuta, ex art. 325 cod. proc. civ., nel rispetto del termini, breve e lungo, di impugnazione". 10. Nel caso in esame il nuovo atto di impugnazione è stato depositato quando erano, e da tempo, scaduti tutti i termini per impugnare, il che comporta l'inammissibilità del ricorso, anche a voler seguire la variante meno severa, ma invero meno convincente, della giurisprudenza sul punto. Anche questa giurisprudenza, nell'ammettere un secondo atto di impugnazione, puntualizza che deve però essere depositato "nel rispetto dei termini". 11. La ricorrente sostiene che, una volta depositato in termini un primo atto di impugnazione, sia possibile integrarlo con altro atto contenente nuovi motivi anche a termini di impugnazione scaduti.
Questo perchè i termini di impugnazione "hanno l'esclusiva finalità di sollecitare il soccombente ad esercitare il proprio potere di contestazione della sentenza di primo grado all'interno di un determinato ambito temporale per garantire la celerità del processo e la certezza del diritto. Ma se la decisione giurisdizionale è stata effettivamente contestata nel rispetto dei termini, la possibilità di aggiungere, con separato atto altri motivi di impugnazione, o viene negata, o se ammessa, deve totalmente prescindere dal rispetto o meno dei termini". 12. La tesi non è condivisibile.
13. L'art. 342 c.p.c. impone di formulare l'appello con "citazione contenente l'esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell'impugnazione, nonchè le indicazioni prescritte dall'ari. 163".
La corrispondente norma concernente il processo del lavoro sancisce che "il ricorso deve contenere l'esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell'impugnazione, nonchè le indicazioni prescritte dall'art. 414". 14. La dottrina processualcivilistica largamente prevalente sottolinea che l'obbligo di formulare motivi specifici deriva dal fatto che i motivi di appello non servono solo ad individuare i capi della sentenza oggetto di impugnazione (come nel codice del 1865), bensì a selezionare le questioni sulle quali il giudice ad quem è chiamato a decidere. Questi potrà riesaminare le sole questioni che gli siano riproposte attraverso specifiche censure. Tutto ciò che non è oggetto di specifici motivi di impugnazione rimane fuori dalla cognizione del giudice di appello, salvo alcune circoscritte eccezioni relative alle questioni processuali o di merito rilevabili d'ufficio anche in sede di impugnazione, e le implicazioni del principio iura novit curia (purchè riguardino punti della decisione che sono stati investiti seppure sotto diverso profilo delle censure dell'appellante).
15. Pertanto, se il processo di appello concerne solo le questioni selezionate da colui che impugna, l'atto che lo introduce deve specificarle con precisione.
16. L'esatta individuazione delle questioni sottoposte al giudice di appello costituisce un dato strutturale del ricorso in appello, da cui derivano conseguenze fondamentali: la delimitazione dell'area del giudizio, l'individuazione dei temi con i quali l'appellato deve confrontarsi nelle sua risposta, i cui termini sono individuati in relazione all'atto di appello; l'ampiezza dello spatium deliberandi del giudice.
17. Da questa ricostruzione deriva che l'atto di appello non può consistere in una enunciazione della volontà di impugnare la decisione di primo grado, rinviando ad un secondo atto, anche solo in parte, l'esposizione dei motivi. I motivi fanno parte del contenuto strutturale dell'atto di appello, sono l'appello; quindi devono tutti essere esposti nei termini fissati dal codice, a pena di inammissibilità. 18. Il secondo motivo di ricorso per cassazione ripropone quello che era stato l'unico motivo dell'appello originario. Si denunzia "violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 421 c.p.c..
Nullità della sentenza o del procedimento. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia". 19. Dopo aver riportato il contenuto del ricorso introduttivo e i verbali di varie udienze contenenti le testimonianze rese in primo grado, la ricorrente per cassazione sostiene che il giudice avrebbe violato le norme processuali indicate in rubrica in quanto "ha chiesto ai testimoni di parte ricorrente di rispondere a fatti che non erano mai stati articolati come capitoli di prova, nè indicati come circostanze specifiche all'interno del ricorso"; che ha fatto ciò nonostante l'opposizione dell'avvocato della ricorrente per cassazione; che ha accolto la domanda sulla base di risposte a domande che non avrebbero dovuto essere formulate. Tali domande sarebbero quelle concernenti l'orario di lavoro, le mansioni svolte, il fatto che la B. aveva una postazione di lavoro nello studio della M. ("fatti mai indicati nel ricorso introduttivo, nè contenuti nei capitoli di prova ivi articolati").
20. La violazione denunziata non sussiste. Il giudice ha operato correttamente.
21. Non va oltre l'ambito dei suoi poteri il giudice del lavoro che ascoltando un teste in una controversia in cui si assume che una persona ha svolto lavoro subordinato alle dipendenze di altra persona, gli chiede di precisare se veniva rispettato un orario di lavoro, quali mansioni venivano svolte e in quale posizione materiale la prestazione veniva effettuata. Tanto più se al ricorso sono stati allegati conteggi elaborati su un dato orario di lavoro e date mansioni e se controparte ha contestato, oltre che la natura subordinata del rapporto, anche specificamente lo svolgimento di un orario a tempo pieno. I poteri previsti dall'art. 421 c.p.c. sicuramente consentono, se non impongono, tali domande.
22. Peraltro, deve osservarsi che nel caso specifico tali domande sono state formulate senza che il difensore della M., avv. T., formulasse alcuna eccezione a tempo debito. Nel ricorso per cassazione si sostiene che "l'inammissibilità della prova testimoniale nei termini descritti è stata eccepita dall'avv. T. all'udienza del 19 gennaio 2001, come risulta dai verbali istruttori riprodotti". Ma da tali verbali si desume che l'avv. T. all'udienza del 19 gennaio 2001, si oppose all'ammissione delle prove di parte ricorrente nella loro originaria formulazione, mentre nelle udienze in cui le prove vennero espletate e in cui vennero poste le domande ritenute ultronee (udienze del 6 e 11 giugno 2001), non mosse alcuna obiezione o eccezione, pur partecipando alla assunzione della prova.
23. Il terzo motivo denunzia la violazione delle norme che distinguono il lavoro subordinato dal lavoro autonomo e vizi di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censurando la decisione di appello per aver ritenuto che le deposizioni testimoniali avessero dimostrato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Il quarto motivo critica la sentenza con riferimento alle valutazioni sul periodo di lavoro svolto dalla B. alle dipendenze di altro datore di lavoro, sostenendo che la Corte avrebbe applicato in modo non corretto i principi in materia di onere della prova. Il quinto motivo critica la sentenza nella parte in cui ha considerato e valutato le risultanze dell'indagine ispettiva della Direzione provinciale del lavoro, esibita su ordine del giudice di primo grado. Il sesto motivo critica la sentenza nella parte in cui analizza la prova testimoniale, assumendo che la stessa sarebbe caratterizzata da omissioni, insufficienze e contraddizioni.
24. Questi quattro motivi in parte vanno oltre l'ambito dei temi selezionati per il giudizio di appello con l'unico motivo (ammissibile) di ricorso (v., ante, quanto si è detto ai nn. 16 e 18) in altra parte, pur muovendosi in tale ambito, pongono questioni attinenti al merito che possono avere ingresso in sede di legittimità se non per vizi di motivazione sui punti decisivi per la controversia prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio. E la motivazione sui punti prospettati sicuramente non può essere giudicata insufficiente o contraddittoria.
25. Il ricorso, pertanto, deve essere respinto, con le conseguenze di legge in ordine alle spese.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in 15,00 Euro, oltre 3.000,00 Euro per onorari, più IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2010