Secondo la sentenza n. 9643 del 20.05.2004 emessa dalla sezione lavoro della Corte di Cassazione, di cui di seguito si riporta il testo, non esiste, nell'ambito di rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, atteso che l'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza e adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva a che l'art. 3 Cost. impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati.
OMISSIS
Motivi della decisione
È innanzitutto da rilevare che la liquidazione giudiziale nel controricorso ha, tra l'altro, eccepito l'inammissibilità del ricorso nei propri confronti, rilevando che il suddetto ricorso non le era stato notificato entro l'anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, sentenza che, pertanto, sarebbe passata in giudicato nei suoi confronti, atteso che, trattandosi di sentenza resa in cause scindibili, sarebbe applicabile alla fattispecie l'art. 332 c.p.c. e non il precedente art. 331 c.p.c.
È altresì da rilevare che nella memoria illustrativa depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. il ricorrente deduce l'infondatezza della eccepita inammissibilità del ricorso nei confronti della liquidazione giudiziale, sottolineando che nell'ipotesi di concordato preventivo con cessione di beni ai creditori la legittimazione passiva nei giudizi promossi dai lavoratori per diritti vantati nei confronti dell'impresa datrice di lavoro in concordato preventivo spetta esclusivamente a quest'ultima, mentre il liquidatore giudiziale è legittimato soltanto nelle controversie che influiscono sulle operazioni di liquidazione e sul riparto del ricavato, onde il controricorso presentato dalla liquidazione giudiziale dovrebbe essere dichiarato inammissibile, non avendo quest'ultima legittimazione processuale nel presente giudizio.
A tale proposito è da rilevare che nella procedura concordataria non esiste una norma come l'art. 43 L. fall. (R.D. n. 267 del 1942), che dispone la perdita per il fallito della capacità processuale, onde, secondo la giurisprudenza costante, il debitore concordatario è l'unico legittimato passivo in ordine alla verifica dei crediti dopo l'omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni, sussistendo la legittimazione del liquidatore solo nei giudizi che investono lo scopo liquidatorio della procedura; parte della dottrina tuttavia, ammette l'intervento volontario del liquidatore nei giudizi relativi alla verifica dei crediti.
Escluso pertanto che il debitore perda la legittimazione processuale e/o che il liquidatore sia litisconsorte necessario del debitore nei giudizi relativi alla verifica dei crediti, e prescindendo dall'ammissibilità o meno di un intervento del suddetto liquidatore in tali giudizi, resa il fatto che nel presente processo il liquidatore è intervenuto partecipando al secondo grado di giudizio, senza che la sentenza d'appello sia stata impugnata in questa sede da alcuna delle parti per aver ammesso l'intervento e/o per non aver estromesso l'interventore.
Allo stato, pertanto, il liquidatore è una parte del giudizio d'appello alla quale non risulta notificato il ricorso per Cassazione ed occorre pertanto fare riferimento alla disciplina dettata dal codice di procedura agli artt. 331 e 332 c.p.c. per le ipotesi in cui la sentenza pronunciata tra più parti non sia stata impugnata nei confronti di tutte.
Nella specie, questo collegio ritiene che sia configurabile l'ipotesi disciplinata dall'art. 331 c.p.c. (e non quella disciplinata dall'art. 332 c.p.c., invocata dal controricorrente), posto che, quando l'interventore adesivo dipendente si inserisce nel processo tra altre persone, il suddetto processo rimane unico in quanto resta invariato l'oggetto della controversia, pur ampliandosi il numero dei partecipanti, con la conseguenza che l'intervento ad adiuvandum determina un'ipotesi di causa inscindibile, atteso che, se è consentito ad un soggetto intervenire per sostenere le ragioni di una delle parti in causa, restando unico ed indivisibile il giudizio, si deve necessariamente configurare un litisconsorzio processuale nei successivi gradi di giudizio, poiché le ragioni che consentono e giustificano la presenza di parti accessorie non si esauriscono esclusivamente in un grado, persistendo l'interesse dell'interventore ad influire con la propria difesa sull'esito della lite (v. Cass. n. 6760 del 1996), ed atteso altresì che la mancata partecipazione dell'interventore al giudizio di impugnazione comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza impugnata nei suoi confronti, con la possibilità (resistita da tutto il sistema) che, essendo unico il processo, si verifichi un conflitto di giudicati.
A norma dell'art. 331 c.p.c., pertanto, nella specie andrebbe ordinata l'integrazione del contraddittorio per consentire la partecipazione del liquidatore al giudizio di legittimità; tanto, tuttavia, non è necessario, posto che il suddetto liquidatore si è già ritualmente e tempestivamente costituito nel presente giudizio depositando controricorso col quale si è compiutamente difeso in relazione al ricorso avversario.
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dei principi di diritto in tema di trattamento retributivo, nonché degli artt. 3 e 36 Cost., artt. 1175 e 1375 c.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata rilevando che, se pure non esiste nel nostro ordinamento il principio di parità di trattamento retributivo tra lavoratori svolgenti le medesime mansioni, tuttavia il datore di lavoro deve dimostrare la ragionevolezza di trattamenti dissimili e tale ragionevolezza va valutata dal giudice nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, onde avrebbe errato il giudice d'appello nel non tenere conto, a tal fine, del titolo del compenso elargito al dipendente che, prima del T., svolgeva le medesime mansioni.
Col secondo motivo, deducendo vizi di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata rilevando che avrebbe errato il giudice d'appello nell'affermare che non risultava provato che le cariche sociali rivestite presso la società del gruppo esulavano dalle mansioni dovute in forza dell'incarico dirigenziale ricoperto, senza considerare che per le suddette attività il dipendente che aveva preceduto il T. aveva percepito un compenso aggiuntivo e che tali attività furono espletate dal T. anche dopo la cessazione del suo rapporto di lavoro con la F..
Secondo il ricorrente, inoltre, la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria laddove afferma che il dirigente che aveva preceduto il T. percepiva un compenso aggiuntivo per la sua attività di consigliere di amministrazione, subito dopo sostenendo che nulla si sapeva delle ragioni per cui veniva erogato tale compenso.
Col terzo ed ultimo motivo, deducendo vizi di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata rilevandone la contraddittorietà e la illogicità per aver ritenuto che le attività presso le società del gruppo rientrassero nelle mansioni di dirigente della società capogruppo e non abbisognassero di un compenso aggiuntivo, contemporaneamente ritenendo che non fosse dovuto un compenso neppure per il periodo in cui tali attività furono svolte dopo la cessazione del rapporto di lavoro con la società capogruppo.
Le esposte censure sono infondate.
Con riguardo al primo motivo, è da rilevare che non esiste nel nostro ordinamento un principio di diritto positivo che imponga al datore di lavoro, nell'ambito di rapporti di lavoro privatistici, di attuare una parità di trattamento retributivo e/o di inquadramento tra tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni. Tale principio, in particolare, non è ricavabile né dall'art. 36 Cost., che si limita a stabilire il principio della retribuzione, oltre che sufficiente, proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, senza alcun riferimento ad una comparazione intersoggettiva tra lavoratori, né dall'art. 3 Cost., che impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non anche nell'ambito dei rapporti privati (v. tra le altre da ultimo Cass. Sez. L. n. 2027 del 1988 n. 457898; n. 2853 del 1987 RV 451974; n. 1444 del 1986 RV 444838).
Ne consegue che la congruità del trattamento economico del lavoratore in relazione alle esigenze di una vita libera e dignitosa e alla quantità e qualità delle prestazioni fornite va valutata con riferimento a parametri socio - economici di carattere generale e non alla condizione di altri lavoratori, così come la correttezza o meno dell'inquadramento di un lavoratore va accertata alla stregua delle mansioni svolte in rapporto alle declaratorie contrattuali e non può invece essere desunta dalla qualifica attribuita ad altri dipendenti svolgenti le medesime mansioni (v., tra le altre, Cass. n. 5649 del 1988 RV 460195 e n. 5233 del 1987, RV 453827).
Pertanto, la mera attribuzione di un trattamento retributivo superiore a parità di mansioni non potrebbe giammai fondare, di per sé, il diritto di altri lavoratori al medesimo, superiore compenso, ma, in totale assenza di apprezzabili e giustificate motivazioni di dette differenze, potrebbe essere sintomatica di un comportamento illegittimo del datore di lavoro, discriminatorio, in violazione dei criteri di correttezza e buona fede, nei confronti dei lavoratori esclusi dai trattamenti economici privilegiati, attribuendo a questi ultimi il diritto al risarcimento del danno (v. Cass. n. 6448 del 1994 RV 487329).
Prescindendo dalla considerazione (assorbente) che nella specie il T. si è limitato a chiedere il medesimo superiore trattamento economico attribuito al suo predecessore a titolo retributivo e non risarcitorio, resta il fatto che il lavoratore che agisca a titolo risarcitorio non può limitarsi a dedurre, come fatto dal ricorrente, la mera disparità di trattamento a parità di mansioni, circostanza di per sé legittima, ma deve dedurre l'illegittimità del comportamento datoriale (asseritamente causativa di danno) allegando e provando l'intento discriminatorio e/o la violazione concreta dei criteri di correttezza e buona fede, nonché l'assoluta mancanza di gualsivoglia motivazione del trattamento privilegiato, potendo dette motivazioni essere le più svariate (ad esempio, una maggiore esperienza lavorativa, oppure una maggiore anzianità di servizio in azienda e/o nella qualifica, o ancora un maggior carico familiare).
È infine da rilevare che il canone della ragionevolezza, invocato dal ricorrente, rappresenta un utile criterio di valutazione del rispetto da parte del legislatore del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 Cost. ma non può essere applicato con la stessa efficacia nella valutazione dei regolamenti privati di interessi che siano frutto dell'autonomia contrattuale (v. in tal senso Cass. n. 62 del 1999, RV 522034 e n. 10581 del 1999, RV 530247).
Con riguardo al secondo motivo è sufficiente osservare, alla luce di tutte le considerazioni sopra svolte, che la prova dell'incremento retributivo erogato al lavoratore che prima del T. rivestiva le medesime cariche sociali non equivale di per sé alla prova che le suddette attività esulassero da quelle dovute dal T. in forza dell'incarico dirigenziale ricoperto.
Sempre alla luce delle considerazioni esposte in relazione al primo motivo, è ancora da rilevare che non è ravvisatile alcuna contraddittorietà nella sentenza impugnata laddove afferma che il compenso aggiuntivo era erogato al predecessore del T. in relazione alle cariche sociali ricoperte, ma che nulla si sapeva delle ragioni di tale erogazione, atteso che, pur essendo ancorata ad una precisa attività, la maggiorazione retributiva poteva essere determinata dalle ragioni più varie (ad esempio, maggiore esperienza, maggiore anzianità di servizio in azienda, e così via).
Venendo infine all'esame del terzo motivo di ricorso è da rilevare che nessuna illogicità e/o contraddittorietà è ravvisabile nella sentenza impugnata laddove essa afferma che le attività presso le società del gruppo rientravano nelle mansioni di dirigente del T. ed erano perciò compensate dalla retribuzione percepita a tale titolo, contemporaneamente negando il diritto a compenso per il periodo in cui tali attività furono svolte dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Invero, una volta cessato il rapporto di lavoro viene meno ogni obbligo o diritto reciproco del datore di lavoro e del prestatore, con la conseguenza che, ove si deduca una anche parziale sopravvivenza di tali obblighi e diritti occorre dimostrare che sia intervenuto un patto successivo in base al quale il datore di lavoro incarica il lavoratore di continuare a svolgere alcune attività assumendosene i relativi oneri retributivi. Il ricorrente a tale proposito assume che la continuazione delle attività avvenne su incarico della F. e per utilità della medesima, e che tanto emergerebbe dall'esperita istruttoria, ma mette, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di riportare in questa sede il testo integrale delle prove documentali o testimoniali asseritamente non o male valutate dal giudice d'appello, impedendo così a questo Collegio (che la natura del vizio denunciato non abilita alla lettura degli atti) di riscontrarne la decisività.
Nella specie la ricorrente non ha neppure dedotto che un simile fatto fosse desumibile implicitamente dalla tacita accettazione, da parte della F., delle attività svolte presso le società del gruppo, ma, ove anche vi fosse stata una simile deduzione, l'eventuale conoscenza, da parte della F., della continuazione delle suddette attività non avrebbe potuto rappresentare un dato univoco dal quale desumere un accorcio tacito, posto che ben avrebbe potuto la F. ritenere che tali attività venivano prestate su incarico delle predette società e che quindi ella non aveva titolo per farle cessare.
Risulta inoltre che le somme relative al periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro siano state richieste a titolo di compenso per le attività svolte e non a titolo di ingiustificato arricchimento, né la sentenza impugnata risulta censurata per non aver, in violazione dell'art. 2041 c.c., attribuito le suddette somme al T. a tale titolo, onde sono da ritenersi irrilevanti i riferimenti del ricorrente agli asseriti vantaggi che la F. avrebbe tratto dalla protrazione delle attività presso le società del gruppo dopo la cessazione del rapporto di lavoro, riferimenti che, peraltro, non sono neppure ancorati al riscontro di elementi probatori individuati con precisione ed integralmente riportati in ricorso.
Il ricorso deve essere pertanto integralmente rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese della presente fase di giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese fra le parti costituite.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2003.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2004