Due voci autorevoli si sono levate nei giorni scorsi per sostenere che il lavoratore che rifiuti di sottoporsi al vaccino anti Coronavirus (SARS-CoV-2) può essere licenziato.
Raffaele Guariniello, noto magistrato, sviluppa il seguente ragionamento: nessuno in base alla Costituzione può essere obbligato a un trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Nel caso di specie, la legge però ci sarebbe: si tratterebbe dell’art. 279 del Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro (d.lgs. n. 81 del 2008), che impone al datore di lavoro di mettere a disposizione “vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico, da somministrare a cura del medico competente” (comma 2, lett. a). La norma, specifica il magistrato, va letta in connessione con l’art. 42 del medesimo Testo Unico, il quale stabilisce che laddove il medico competente esprima un giudizio di inidoneità del lavoratore alla mansione, il datore di lavoro è tenuto ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, ma solo “ove possibile”. Ne consegue che il lavoratore giudicato “inidoneo” il quale decida (come è sua facoltà) di non sottoporsi alla vaccinazione disposta dal datore di lavoro, in mancanza di collocazioni alternative, potrà essere licenziato.
Il professor Pietro Ichino fa invece leva sulla prevalenza dell’interesse alla tutela della salute della collettività rispetto a quello individuale del lavoratore alla prosecuzione del rapporto e sull’esistenza di una norma “ombrello”, l’articolo 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che secondo la scienza e la tecnica, sono idonee a garantire la salute e la sicurezza dei prestatori di lavoro. Dunque, non appena il vaccino sarà disponibile, i datori di lavoro non solo potranno, ma dovranno imporre la vaccinazione, almeno fintanto che l’epidemia di Covid non sarà cessata. A quel punto la decisione spetterà ai lavoratori, i quali restano liberi di scegliere di non vaccinarsi “ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro”. Tale conclusione, secondo Ichino, sarebbe perfettamente coerente con l’articolo 32 della Costituzione che prima di tutto riconosce la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e solo dopo prevede la libertà di scelta e di rifiuto della terapia: “quando la scelta di non curarsi determina un pericolo per la salute altrui, prevale la tutela di questa. Se sono un eremita sono liberissimo di non curarmi e non vaccinarmi. Se rischio di contagiare familiari, colleghi o vicini di posto in treno, no: lo Stato può vietarmi questo comportamento”.
Entrambe le tesi contengono spunti di riflessione interessanti, ma nessuna delle due convince, per un complesso di ragioni che proverò a spiegare, premettendo che la delicatezza e la novità della questione unitamente alla dinamicità di una situazione in costante evoluzione suggeriscono dosi massicce di prudenza e non consentono conclusioni definitive, ma solo una riflessione che, seppur “considerevolmente laboriosa” è preferibile a qualunque affrettato giudizio (José Ortega y Gasset).
IL CONTESTO: LA DISCIPLINA EMERGENZIALE PER LA PANDEMIA COVID-19
Il ragionamento non può che partire dalla considerazione, seppur condotta in estrema sintesi, dell’impostazione di fondo della disciplina emergenziale per la pandemia Covid-19 e di come questa si inserisce nel contesto normativo generale in tema di prevenzione e tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
E’ infatti noto che, per contrastare gli effetti della diffusione del virus, il Governo ha sin dall’inizio adottato un modello inedito “a geometria variabile” basato su un intreccio fra fonti legislative e non legislative (d.p.c.m.) e atti di autonomia negoziale collettiva, i protocolli condivisi (innanzitutto il protocollo 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020) (A.Perulli; M. Marazza; entrami in Riv. it. dir. lav. 2020).
Funzione principale della disciplina emergenziale è quella di consentire la prosecuzione delle attività produttive assicurando alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione mediante l’adozione e l’attuazione di un complesso di misure operative specifiche ispirate al principio precauzionale. Siffatte misure, in una condizione di incertezza scientifica, riempiono di contenuto la clausola generale dell’articolo 2087 del codice civile (che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure, anche non codificate, che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) e in tal modo fissano il perimetro dell’obbligo contrattuale di sicurezza posto da tale disposizione in capo ai datori di lavoro, definendo un’area di rischio autorizzato.
L’Esecutivo ha cioè operato un complesso ed articolato bilanciamento fra interessi (della collettività e dei singoli) e diritti di rilievo costituzionale tra cui vengono in particolare rilievo quelli alla salute, alla libertà dell’iniziativa economica d’impresa, al lavoro, all’ istruzione, all’assistenza e previdenza.
L’adozione e la corretta applicazione delle misure previste nei protocolli e nelle specifiche discipline di settore escluda la responsabilità datoriale
Per ciò che in questa sede interessa, preme poi rilevare che la qualificazione, confermata nei protocolli, del contagio da Coronavirus quale “rischio generico” in quanto incombente indistintamente su tutta la popolazione e all’individuazione di precise prescrizioni precauzionali, induce a ritenere che l’adozione e la corretta applicazione delle misure previste nei protocolli e nelle specifiche discipline di settore escluda la responsabilità datoriale, penale, contrattuale ed extracontrattuale.
La soluzione trova conferma nell’articolo 29-bis (Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19) del “decreto liquidità” (n. 23/2020), articolo inserito in sede di conversione (l. n. 40/2020) che, fornendo un importante chiarimento rispetto a quanto stabilito dall’articolo 42 del decreto Cura Italia (n. 18/2020) dispone espressamente che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonchè mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
UNA NUOVA “VARIABILE”: LA DISPONIBILITÀ DI UN VACCINO EFFICACE”
Sia che si convenga con una siffatta conclusione, sia che si ritenga che i dubbi non possono dirsi sciolti del tutto, ha ragione il presidente dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro Rosario De Luca il quale, in recente intervento (sul Corriere della Sera del 22 ottobre), chiede di avviare “una riflessione con le parti sociali” e dunque invoca un nuovo intervento del legislatore.
In effetti un tale intervento pare ormai non procrastinabile, non solo però per le ragioni espresse da De Luca, ossia per la situazione di grande disagio tra gli imprenditori determinata dagli attuali margini di incertezza in ordine alle eventuali responsabilità in caso di infortunio da Covid, aggravata dall’impennata autunnale ed invernale dei contagi, ma anche perché oggi viene ad aggiungersi una variabile ulteriore: la disponibilità di una misura di prevenzione di riconosciuta efficacia, vale a dire un vaccino.
Un datore di lavoro può pretendere che un lavoratore si sottoponga alla vaccinazione e licenziarlo in caso di rifiuto?
Di qui un complesso di domande tra cui quella fondamentale da cui siamo partiti: un datore di lavoro può pretendere che un lavoratore si sottoponga alla vaccinazione, messa a disposizione gratuitamente dal servizio sanitario o dallo stesso datore di lavoro, e licenziarlo in caso di rifiuto?
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, la risposta può dirsi, in linea generale e di principio, negativa, ma con alcuni distinguo.
Il primo aspetto da considerare è il contesto nel quale si svolge l’attività lavorativa, perché una soluzione valida per tutti e per tutte le stagioni non è ragionevolmente prospettabile.
Occorre in particolare distinguere tra ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo (laboratori) o in cui la presenza dello stesso non possa essere evitata (strutture sanitarie) dagli altri ambienti di lavoro.
Per i primi, ossia per le lavorazioni che per semplicità potremmo definire “coronavirus esposte”, oltre alle previsioni dell’articolo 2087 del codice civile e dei protocolli condivisi richiamati dall’articolo 29 bis del “decreto liquidità” (su cui v. infra) viene in rilievo anche il titolo X del Testo unico sulla sicurezza (decreto legislativo n. 81/2008), composto da quattro capi, ventuno articoli e cinque allegati, che disciplina le misure che i datori di lavoro sono tenuti ad adottare per proteggere i lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza derivanti dall’esposizione ad agenti biologici nell’ambiente di lavoro.
E' noto che la Sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 (SARS-CoV-2) è stata inserita, in attuazione della direttiva (UE) 2020/739, nell’ elenco degli agenti biologici classificati nell’Allegato XLVI al T.U. del 2008 quale agente che può causare malattia grave in soggetti umani, costituisce un serio rischio per i lavoratori e può propagarsi nella comunità, ma per cui sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche (art. 4, d.l. n. 125/2020).
Il datore di lavoro, in sede di valutazione dei rischi, dovrà quindi prendere in considerazione ogni informazione disponibile sull’agente biologico e predisporre le misure più idonee a contenere il rischio secondo la normativa vigente, l’esperienza e la tecnica.
Un ruolo centrale assume a tal riguardo la sorveglianza sanitaria, necessaria per i lavoratori esposti all’agente biologico. Compete al medico competente indicare al datore di lavoro le misure specifiche da adottare. Tra queste compare anche la messa a disposizione di vaccini efficaci (art. 279 T.U.), relativamente ai quali i lavoratori hanno peraltro diritto ad essere informati sui “vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione”.
A tale complesso di regole si aggiunge l’art. 286-sexies del T.U. che, in relazione alla protezione del personale sanitario da ferite da taglio prevede quale misura specifica oltre all’informazione e sensibilizzazione sull’importanza dell’immunizzazione nonchè sui “vantaggi e inconvenienti della vaccinazione o della mancata vaccinazione, sia essa preventiva o in caso di esposizione ad agenti biologici per i quali esistono vaccini efficaci”, anche l’ obbligo per il datore di lavoro di dispensare gratuitamente tali vaccini “a tutti i lavoratori ed agli studenti che prestano assistenza sanitaria ed attività ad essa correlate nel luogo di lavoro (c. 1, lett. g).
Dall’esame della disciplina vigente si ricava dunque che la vaccinazione rientra senz’altro tra le misure che possono essere adottate negli ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo, come nei laboratori di ricerca, di didattica o di diagnostica, o quando la sua presenza non possa essere impedita, come nelle strutture sanitarie dove siano ricoverati e sottoposti a cure pazienti affetti da Coronavirus-2 (SARS-CoV-2).
Nelle predette situazioni è pertanto possibile argomentare che la vaccinazione costituisca una misura precauzionale adeguata e ragionevole che il datore di lavoro può decidere di adottare ed anche imporre al proprio personale e che in tal caso il lavoratore che decida di non vaccinarsi, possa essere adibito ad altre mansioni, se disponibili, oppure trasferito o persino anche licenziato. Ma si tratta pur sempre di un’interpretazione, ragionevole quanto si vuole, ma pur sempre opinabile.
Per le attività diverse, in assenza di previsioni legali di portata generale o particolare, la questione si pone invece in termini differenti e conduce ad escludere la possibilità di configurare, in capo al lavoratore, un obbligo di vaccinazione e la conseguente possibilità, in caso di rifiuto, di spostamento a mansioni diverse o di licenziamento.
INTERESSE COLLETTIVO VS INTERESSE INDIVIDUALE
Né, a sostegno dell’opposta soluzione, vale richiamare la prevalenza dell’interesse collettivo alla salute (art. 32, c. 1 Cost.) rispetto a quello individuale a non essere sottoposto a trattamenti sanitari, presidiato da una esplicita riserva di legge (art. 32, c. 2 Cost.).
Dalla previsione costituzionale non può in altri termine essere fatto discendere un obbligo in capo ai singoli lavoratori di sottoporsi al vaccino né una responsabilità in capo ai datori di lavoro che, non essendovi tenuti per previsione di legge, non richiedano la vaccinazione o non la pretendano dai propri collaboratori.
Un dubbio potrebbe sorgere ricordando che secondo la Cassazione “Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori nell’esercizio delle loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa” (da ultima Cassazione penale sez. IV, 26/02/2019, n.13583). Ma anche in tal caso occorre considerare che l’ampliamento, dal punto di vista soggettivo, dei destinatari dell’obbligo di protezione, nulla aggiunge quanto alla latitudine sotto il profilo oggettivo dei comportamenti che possono essere pretesi dal datore di lavoro.
Tutt’al più, pur con la consapevolezza di avventurarsi in un terreno inesplorato e irto di ostacoli, si potrebbe indagare la possibilità di configurare la scelta del datore di lavoro di richiedere la vaccinazione obbligatoria, se inserita in un più ampio processo di riorganizzazione dell’attività funzionale ad una migliore tutela di tutte le perone presenti nei luoghi di lavoro, dipendenti, collaboratori e terzi, casomai preceduta da una revisione del documento di valutazione dei rischi, come una scelta organizzativa, presupposto idoneo a giustificare un trasferimento o un mutamento di mansioni, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. o un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, fatto sempre salvo il diritto al ripescaggio. Ma anche in tal caso il ragionamento avrebbe maggiori chance di essere sviluppato per le lavorazioni che abbiamo definito “coronavirus esposte”, molto meno per le altre, dal momento che per la compressione del bene “lavoro”, in una prospettiva di bilanciamento, occorre pur sempre che sull’altro piatto della bilancia sia rinvenibile in concreto, e non in astratto, un diritto di “peso” almeno equivalente e che rischia (sempre in concreto) di essere sacrificato in assenza delle misure adottate.
LA REALIZZAZIONE DI UN ADEGUATO BILANCIAMENTO FRA GLI INTERESSI IN GIOCO È COMPITO DEL LEGISLATORE
Il compito di realizzare il bilanciamento fra il complesso di interessi e diritti costituzionali in gioco, della collettività, dei lavoratori e dei terzi, anche definendo un nuovo punto di equilibrio è compito che spetta esclusivamente al legislatore, non ai datori di lavoro.
A tal riguardo giova comunque ricordare che i margini entro i quali il Governo può muoversi sono piuttosto ampi e ormai ben delineati.
L’orientamento della Corte costituzionale in ordine all’obbligazione vaccinale generale (quella in l’età pediatrica in Italia fu introdotta nel 1939) appare consolidato e costantemente confermativo della legittimità dell’operato del legislatore: premesso che “i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall’art. 32 Cost.)”, anche altri interessi (come nel caso di specie quello del minore ), “il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo. Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)” (Corte cost. n. 5/2018, relativamente al “decreto vaccini”, d.l. n. 73/2017).
E anche in relazione al mondo del lavoro la storia delle vaccinazioni obbligatorie è forte di una tradizione consolidata (senza pretesa di esustività, si va dalla vaccinazione antitifica, già prevista nel 1926, che oggi può essere disposta dalle regioni in casi di riconosciuta necessità e sulla base della situazione epidemiologica locale, a quella antitetenica obbligatoria oltre che per i nuovi nati anche per alcune categorie di lavoratori, a quella antiepatite B, ora obbligatoria per i nuovi nati, fortemente raccomandata per talune categorie professionali, e in particolare per gli operatori sanitari).
GLI SCENARI POSSIBILI
Il legislatore, come recentemente confermato dall’attuale presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio e dal presidente precedente Cesare Mirabelli, può dunque rendere obbligatorio il vaccino per tutti i cittadini fin da subito, ma solo con un atto avente forza di legge, che, ricorrendo i presupposti di straordinarietà, di necessità e d’urgenza di cui all’art. 77 Cost., può essere costituito anche da un decreto legge del Governo (ma non da un d.p.c.m. che in quanto atto amministrativo non sarebbe idoneo a soddisfare la riserva di legge di cui all’art. 32, c. 2 Cost.).
E, siccome il più contiene il meno, pienamente legittime sarebbero anche scelte diverse, che imponessero il vaccino solo a talune categorie di soggetti maggiormente a rischio (ad esempio gli anziani o le persone affette da specifiche patologie) o di lavoratori che, in relazione al lavoro svolto, siano più esposti al pericolo di essere contagiati o di diffondere il contagio.
Per questi ultimi, una particolare urgenza si pone non solo per gli operatori di laboratori o della sanità (per i quali, per quanto come si è detto la possibilità di imposizione già possa ricavarsi in via interpretativa dalle norme vigenti, una previsione chiarificatrice sarebbe comunque opportuna), soprattutto per quelli che hanno una concreta possibilità di entrare in contatto con persone affette da Coronavirus, o con persone “fragili” (come chi presta attività in reparti di emodialisi, rianimazione, oncologia, chirurgia, ostetricia e ginecologia, o gli operatori delle Case residenza o delle Residenze sanitarie per anziani), ma anche, ad esempio, per gli addetti a servizi pubblici di primario interesse collettivo o per il personale scolastico.
Per evitare dubbi ed incertezze interpretative, e dunque per evitare di scaricare la responsabilità sulle imprese, è altresì opportuno che il legislatore, laddove decida di sancire un qualche obbligo di vaccinazione (auspicabilmente proseguendo nel dialogo con le parti sociali avviato sin dal primo momento e proficuamente condotto durante tutta la gestione della crisi pandemica), determini con chiarezza, oltre ai presupposti e all’ambito di applicazione, anche le ragioni che giustificano un rifiuto di sottoporsi a vaccinazione (sulla scorta dell’orientamento che ammette siffatta possibilità in presenza di specifiche e certificate motivazioni mediche che rendano la vaccinazione sconsigliata o pericolosa per la salute: ad es. T.A.R. L’Aquila, Abruzzo, sez. I, 12/03/2020, n.107; Cassazione civile sez. II, 26/06/2006, n.14747) e le conseguenze dell’eventuale rifiuto ingiustificato, configurando ad esempio, per i lavoratori subordinati, un’autonoma ipotesi di licenziamento e dunque prevedendo (ad esempio sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 55-octies, c. 1, lett. d) del dl.gs. n. 165/2001, Testo unico sul pubblico impiego) la possibilità, per il datore di lavoro, di risolvere il rapporto di lavoro nel caso di rifiuto, da parte del dipendente, di sottoporsi alla vaccinazione, eventualmente subordinandola all’impossibilità di adibizione a mansioni diverse.